di Oreste Mottola
“Stanare i tumori, evitandone i travisamenti”. Il professor Michele Maio, salernitano originario di Padula, protagonista di un importante servizio andato in onda ieri sera a “Le Iene”. Direttore del Centro di Immunoterapia oncologica del Policlinico Santa Maria delle Scotte di Siena, Maio è uno dei pionieri in Italia dell’immunoterapia, che consiste nell’uso del sistema immunitario per eliminare il cancro, aggirando i meccanismi di camuffamento che la malattia mette in atto per sfuggirgli. Al grande pubblico il tutto è stato svelato grazie “La cura che frega il tumore” , il titolo del servizio che ieri Italia 1 ha trasmesso grazie alla “iena” Gaetano Pecoraro. Figlio di un padulese, Maio è nato a Napoli e, dopo la specializzazione in Oncologia ed Ematologia, ha partecipato alle prime esperienze di Immunoterapia oncologica al New York Medical College. Tornato in Italia nel 1989, è diventato responsabile dell’Unità di Bioimmunoterapia dei tumori del CRO di Aviano per poi trasferirsi a Siena. Dal 2004 ha dato vita al Nibit, il Network Italiano per la Bioterapia dei Tumori, e nel 2012 è nata anche una Fondazione. Nel 2019 il Comune di Padula gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Sulla porta dello studio da cui Michele Maio dirige il Centro di immunoterapia oncologica al Policlinico Santa Maria alle Scotte a Siena, un breve testo in napoletano accoglie il visitatore. È il famoso “facite ammuina”: l’ordine per i marinai di fare una gran confusione per dare l’impressione di essere occupati in mansioni importanti, che secondo un’autoironica tradizione partenopea sarebbe “da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno”. Se oggi Maio si sente molto “newyorkese, friulano e senese”, il marcato accento mette in chiaro che il legame con Napoli, dove è nato e cresciuto, non si è mai interrotto: in un certo senso, lui che da Napoli è partito, Napoli l’ha trovata anche in America, dove è sbarcato a 24 anni e mezzo con una borsa semestrale di AIRC, subito dopo la laurea con 110 e lode conseguita a tempo di record. “La cura che frega il tumore” è il titolo del servizio che Italia 1 ha trasmesso grazie alla “iena” Gaetano Pecoraro. Oggi, grazie all’avanzamento della ricerca, abbiamo armi che fino a poco tempo fa sembravano avveniristiche, tra cui l’immunoterapia, che purtroppo non funziona per tutti dato che il DNA del tumore si può modificare fino a renderlo irriconoscibile agli anticorpi. Eppure una ricerca del professor Maio conferisce una nuova speranza, andando a stanare il tumore dove si nasconde.
L’équipe di Siena conduce sperimentazioni da anni in epigenetica, isolando e studiando il Dna del tumore per capire quali fattori lo rendono invisibile e se, grazie ad un farmaco, è possibile togliere quel “velo” che lo nasconde.
I ricercatori riescono così a “fregare” il tumore, scovandolo sempre più spesso e curandolo grazie alle compresse che fanno parte della terapia immunologica attualmente in fase di sperimentazione 2 su una serie di pazienti in stadio metastatico. Al momento si tratta di persone che soffrono di cancro ai polmoni o di melanoma, che oggi stanno rispondendo molto bene alle cure che non presentano gli effetti collaterali della chemioterapia. “Durante l’Università avevo legato con un gruppo di compagni molto determinati, e a un certo punto un paio di loro avevano ottenuto l’assegnazione della sede notarile, dopo gli studi in Legge, mentre io avevo la sensazione di essere in ritardo, anche se mi sono laureato in 5 anni e una sessione” racconta, appoggiato alla scrivania ingombra di instabili pile di fascicoli, su cui spicca il fonendoscopio, come a segnalare il forte legame tra ricerca di laboratorio e cura del malato, che ha rappresentato una costante nella sua vita, insieme alla voglia di girare il mondo.
Animo di viaggiatore
Già prima di laurearsi, Maio aveva trascorso lunghi periodi all’estero, all’inizio degli anni ottanta: un mese a studiare genetica umana a Leida, in Olanda, poi ematologia a Cambridge, in Inghilterra, e immunologia a Monaco, in Germania. “Il mio professore all’Università di Napoli, l’immunologo Serafino Zappacosta, diceva: bisogna andare lì a imparare la tal cosa. E io ero sempre il primo ad alzare la mano” ricorda. Non aveva ancora del tutto chiaro che cosa avrebbe fatto dopo la laurea, ma nel dubbio la mano l’alzava.
Anche prima di optare per Medicina, sul finire del liceo classico aveva accarezzato per qualche tempo l’idea di iscriversi a Economia e commercio: “Alla fine prevalse l’immagine del medico di famiglia che, fin da quando ero ragazzino, veniva a casa e dopo essersi occupato di chi stava male restava a scambiare due chiacchiere davanti a un caffè”. Il papà Antonio, ingegnere, stava lontano per lunghi periodi, in altre parti d’Italia ma anche in Sudamerica, e alle volte la mamma Crisanta partiva con lui: “Con le mie sorelle Giusi e Chiara abbiamo passato qualche periodo con la zia”. L’idea di allontanarsi da casa, insomma, faceva parte della normalità che Maio respirava fin da piccolo. Quando nel 1983, subito dopo la laurea, si presenta l’opportunità di andare al New York Medical College, diretto da uno scienziato che ha conosciuto in occasione di un seminario a Napoli, il passo è breve: “Sono stato fortunato perché all’arrivo ho subito legato con un gruppo di coetanei”. Con alcuni compagni di laboratorio stabilisce presto la consuetudine di ospitarli a cena nel piccolo appartamento nel seminterrato di una villa, a due passi dal campus di Valhalla, poco a nord di New York, in cui vive da solo: “Io ho sempre amato cucinare, ma detesto lavare i piatti, che toccavano a loro”.
La laurea italiana non gli consente di esercitare negli Stati Uniti, ma la competenza acquisita nell’uso di una tecnica di laboratorio gli permette di volare a Los Angeles – attraversando il continente – per sostenere un esame in un’agenzia federale. Ottiene così l’abilitazione a firmare referti per la valutazione della compatibilità dei pazienti destinati al trapianto di rene e midollo osseo. Assunto al Medical College, divide le sue giornate tra Valhalla e l’Istituto oncologico Sloan Kettering, dove ferve la ricerca sui linfociti T, negli stessi anni al centro della ricerca sulla nuova e temibile epidemia di Aids.
“La borsa di Airc è stato un viatico importantissimo, anche se nei primi tempi a New York ho vissuto con ben pochi mezzi” ricorda sorridendo. “In quegli anni ho fatto molto laboratorio ma anche molta ricerca clinica, in particolare sui tumori solidi come il melanoma. Lì ho cominciato a studiare l’immunoterapia, anche grazie al fatto che il New York Medical College era uno dei soli sette centri negli Stati Uniti autorizzati dalla Food and Drug Administration a studiare l’interleuchina 2, un mediatore cellulare prodotto dai linfociti T e che ha la funzione di regolare l’attività del sistema immunitario.”