Successo per Francesco Gallelli che ha interpretato sul palcoscenico del teatro Ghirelli “Spartacu strit viù” un monologo dedicato a Franco Nisticò, novello Spartaco, portatore di mito
Di Olga Chieffi
E’ portatore di mito Francesco Gallelli, giovane attore di Badolato, il paese di Franco Nisticò un uomo leale e costruttivo che ha lavorato con passione per la propria città. Sul palco del Ghirelli, ospite di Ablativo di Vincenzo Albano e della sua VII edizione della Stagione Mutaverso ha proposto “Spartacu strit viù” un monologo duro, faticoso, corporale, in cui si tocca con mano la realtà di un mondo che deve uscire dalle macerie fisiche, ma in particolare morali, cui ci stiamo velocemente avviando. Segrete figure e segreti che spesso abitano in fondo a noi, immagini abbreviate di vite vive ma anche di astri spenti, piccoli viventi e piccoli morti, che resistono in noi tenacemente o per sempre. Spesso parole singole, lampi inspiegabili, unici, ma indelebili. Salta la corda Francesco Gallelli, da navigato pugile, lottatore, trasformandosi, in quel principe gladiatore che fu Spartacus, inviato dopo la diserzione, alla scuola dei gladiatori di Capua, dove diede inizio alla sua rivolta, finita nel sangue. Salta la corda Spartacus che non dà sensazione di leggerezza, bensì di pesantezza, col suo sordo suono, ritmato sul palcoscenico, dopo che lo spettacolo ha il suo incipit nell’elencazione dei morti di quella strada, la 106 delle Calabrie, fantasmi quasi attesi fuoriuscire dalla nebbia, sulla voce dell’ultimo intervento di Nisticò, stroncato da un infarto nel corso di un comizio, come Enrico Berlinguer. Spartacu ha dovuto sotterrare il proprio daimon, come tanti. La società odierna si presenta contraddittoria e piena di tensioni e rischia di sfigurare il vero volto dell’uomo nella sua essenza. E’ in atto un cambiamento culturale in cui l’efficienza è elevata ad unico criterio di giudizio. La società non dà risposte sul senso della vita, ma chiede massima efficienza, velocità e profitto, il fine dell’agire non è più l’uomo ma il danaro. Spartacu deve rinunciare ad interpretare il dialogo di Alcesti e Admanto, a fermare il tempo guardando l’assoluto del mare di Ulisse per calarsi in quell’inferno fatto di incubi che sbranano i sogni, dove il daimon pare debba essere sotterrato per sempre perché costretto ad accettare un lavoro che gli permetta di guadagnare qualcosa, ovvero percorrere ogni giorno la famigerata strada più volte al giorno e, quindi, rischiare la morte, essendo anche infelice. Spartaco, mentre lotta non solo per una strada più sicura, ma anche per dissolvere la ritrosia della gente a scendere in piazza e pretendere ciò che gli è dovuto, fa anche un amarissimo calcolo sulle probabilità di morte e di sopravvivenza, e una cosa è certa: se non muori tu, muore qualcuno vicino a te, qualcuno del tuo paese e devi andare a fare il compianto e la 106 colpisce ti colpisce comunque, sia prima, sia dopo la pensione, raddoppio di un mondo che ci pone sul discrimen tra una parte e l’altra della vita, tra di qua e l’oltre. Ma ecco il verbo farsi finalmente corpo. Il corpo è quello dolente del contadino del Sud oppresso all’inizio del secolo breve dal caporalato, ecce homo che oggi si trasforma nel nuovo Cristo nero, simbolo dei novelli schiavi del sistema economico, del libero mercato, il corpo di chi deve stare seduto dietro la scrivania di un call center per quattro spiccioli, di chi lavora da corriere espresso e ha solo tre minuti per consegnare un pacchetto, i precari in eterna formazione, gli emigranti e i resistenti. Ci si potrà salvare? Forse, attraverso l’arte che è auto modificazione, ovvero è la forma piena della capacità di mettersi in giuoco, a rischio, calandosi nell’esperienza, del mondo, di sé e delle cose. Applausi a scena aperta per Gallelli e i suoi tutor artistici, Luca Michienzi e AnnaMaria De Luca, autrice delle scene e degli splendidi costumi. L’invito è a cacciare le zanne per mozzicare caviglie e realizzare i propri sogni.