di Alessandro Turchi
Presidente di Salerno Migliore Avrà più di settanta anni, affacciato dal suo negozio osserva il passeggio sul Corso, con aria indolente e senza espressione, poi guarda la sua vetrina, il volto impassibile, diffidente, serio, sospettoso. Sbuffa, si lamenta con il vicino e dà un’ennesima ritoccatina alla mercanzia sugli scaffali, con i prezzi (esagerati) ben esposti, nella consapevolezza che le fiumane di passeggiatori andranno ancora a comprare da lui, come facevano negli anni d’oro della Salerno opulenta e padrona del commercio. Il tempo, per lui, non è passato, tutto scorre come scorreva decenni fa. Potremmo definirlo, questo signore, il rappresentante di una Salerno immobile e incapace di guardare avanti, l’esponente dei tanti che non si fanno una ragione di un passato svanito via, con i giovani che non si ritrovano in questa città, tanto da lasciarla appena possono. Il mondo avanza, l’intelligenza artificiale, internet, le connessioni digitali, le app, le vendite online, i contratti a distanza, i pagamenti dal cellulare. Ma c’è una parte di Salerno che è rimasta indietro, che continua a ragionare in termini analogici, che conserva i soldi in fasci di banconote nei cassetti, che non usa il POS, una Salerno ben rappresentata dalle nostre amministrazioni, statiche ed indolenti. Cantieri ventennali, lavori infiniti, zero incentivi alla modernizzazione, convegni stantii con discussioni vecchie, cultura inesistente, improvvisazione e tanta, tanta, retorica. In un recente articolo abbiamo messo in evidenza il fenomeno della fuga dei nostri figli, basti dire che nell’ultimo decennio dalla nostra provincia sono scappati via in quarantamila, spesso preparati e qualificati, risorse fresche che sono andate a cercare fortuna altrove. Abbiamo parlato della débâcle della nostra città, incapace di trattenerli con proposte e programmi possibili, incapace di guardare oltre il proprio naso. L’immagine di quel commerciante impassibile e immobile riflette proprio l’impossibilità, per questa città, di mutare pelle, di abbandonare vecchie consuetudini e antichi riti per guardare avanti. Una città che invece si accontenta, spesso egoista e distaccata, che non riesce a formulare proposte valide, che si svuota della sua gioventù migliore, più competente, più moderna e dinamica, sotto l’occhio di quel commerciante, troppo occupato a lamentarsi dei clienti che non si fermano e degli abusivi sul Corso. Sono tanti i nostri cittadini che stanno a guardare, che non si interessano, che sbuffano contro il traffico o contro la chiusura dei negozi o contro una TARI fra le più alte d’Italia, salvo poi lamentarsi a ripetizione, nelle conversazioni private, nei bar, con gli amici o dietro la tastiera anonima di un social. L’importante è farlo di nascosto, senza clamore, “zitto zitto”, facendo capire più che dicendo, con la consapevolezza implicita di non voler “disturbare il manovratore”. Intanto i giovani se ne vanno, se non hanno la fortuna di far parte di una tradizione familiare, come gli avvocati figli di avvocati, o i figli dei grandi ingegneri e dei commercianti di rilievo che nei tempi d’oro hanno fatto fortuna nella città prosperosa. Tradizioni e continuità che non si perpetueranno per molte generazioni e che, soprattutto, non metteranno al riparo questa città da un domani incerto. C’è una mesta pigrizia che avvolge tanti, e che allontana come “indesiderabile” lo spirito del cambiamento, la voglia di nuovo, di modernizzare, di modificare una città sempre più immobile e con una decrescita infelice. In pochi, ad esempio, provano un minimo di euforia per la nuova dimensione turistica che sempre più, con le sue storture, con un’organizzazione assente, con le improvvisazioni quotidiane, va delineandosi da un po’ di anni come la nuova vocazione della città, a quanto pare l’unica. Nessun entusiasmo, specialmente se il nuovo sfiora le piccole tradizioni secolari, gli antichi miseri privilegi, le rendite di posizione, il parcheggio sotto casa, l’auto in doppia fila, i controlli degli inesistenti Vigili. Come una sorta di idiosincrasia permanente per tutto ciò che modifica l’esistente e apre nuovi orizzonti. I giovani se ne vanno da questo immobilismo, dalla incapacità di adeguarsi al nuovo, con una amministrazione assolutamente, a sua volta, inerte, neanche sfiorata dall’idea di dover accompagnare in qualche modo lo sviluppo della città e la sua evoluzione. Da questo spazio abbiamo più volte inneggiato alla smart city, ad una città che sappia guardare avanti, non solo in termini di grandi opere architettoniche, ma anche e soprattutto in termini di innovazione, di trasparenza, di comunicazioni rapide, di agevolazioni per i cittadini. Il sospetto è che se le nostre amministrazioni rimangono ferme e continuano a barcamenarsi fra lucine d’artista e inaugurazioni, fra verifiche di maggioranza e terzi mandati, fra cantieri infiniti e sermoni televisivi, non vedremo mai nulla di nuovo. Per esempio quella modernizzazione che può portare competitività in un turismo moderno e abituato a confrontarsi con hotspot, free Internet, servizi di wi fi indoor nelle biblioteche, nei musei, nei palazzi. Il popolo della pennichella dopo pranzo, delle “vasche” sul corso, della macchina in doppia e tripla fila, del caffè al volo, quanto e in che misura auspica e vuole cercare il nuovo che avanza, la Salerno digitale con la realtà aumentata, con i touchwindow ad ogni angolo, o con postazioni gratuite per la ricarica di telefonini e tablet? Quanto, la città statica, ha voglia di innovare e di offrire idee imprenditoriali nuove e colte ai propri giovani, oggi costretti a fuggire a gambe levate?