Rino Mele
Quando mi ha telefonato Olga Chieffi per dirmi della morte di Angelo Trimarco, ho pensato immediatamente a un angelo di Paul Klee, come fosse dipinto sul vetro – e non disegnato su un po’ di carta – e fosse stato all’improvviso distrutto. L’angelo di Klee, cui ho pensato è una figura di contraddizione, bellissima e irraccontabile: semplice come tutto ciò che ci sopravanza: penna e acquerello su carta, incollata a sua volta su un cartone, come avrebbe potuto fare la passione di qualsiasi giovane studente di un Istituto d’Arte. Rappresenta un fanciullo col volto essenziale, due gambe d’uccello e le braccia alzate come per dire un improvviso entusiasmo o la certezza di prendere il volo. Il titolo è “Angelus descendens”, del 1918 (l’anno in cui l’ecatombe della grande guerra, illudendoci, sembrò fermarsi).
Alzare entrambe le braccia, per amicale entusiasmo, era un gesto molto abituale in Angelo Trimarco. L’ho conosciuto bene: per lunghissimi anni ci siamo visti ogni giorno: subito dopo pranzo – in quelle ore morte, per non rubare niente al lavoro – d’estate e nel freddo invernale, andavamo tra Vietri e Cetara, sempre nello stesso bar, sul mare, a dirci poche parole sospese su righi di reciproco silenzio che sembrava dialogo, e ne era l’ombra chiara.
Furono tempi terribili, gli anni Settanta, Ottanta. Ricordo il mio acuto interesse per un suo bel libro del 1974, lui sembrava uno speleologo nelle grotte dell’arte, gli faceva luce la psicoanalisi che amava, e nelle cui formalizzazioni si riconosceva come in una salvifica geometria a specchio dell’ansia. Il libro è “L’inconscio dell’opera”, edizioni Officina, di Roma, in una splendida collana diretta da Filiberto Menna. Significativo il sottotitolo, “Sociologia e psicoanalisi dell’arte”. Dopo qualche anno pubblicò “Itinerari freudiani”. La psicoanalisi era tra le urgenze culturali che più ci legava in quel fantastico piccolo gruppo, che Filiberto aveva voluto e teneva stretto col suo carisma: un gruppo che aveva la forma misteriosa, l’equilibrio, di un quadrato, ma era un trapezio inquieto, un pentagono col suo misticismo laico, pur sembrando, per un’erronea illusiva percezione, sempre una suggestivo poligono dagli innumerevoli lati. In quella figura, straordinaria era la profonda intensità dell’amicizia tra Angelo Trimarco e Achille Bonito Oliva: così lontani e diversi da sembrare irriconoscibilmente uguali.
Al contrario, Angelo e io, negli ultimi anni – e ormai da molto tempo – non ci siamo incontrati più.
Ma cosa significa che una persona, che hai conosciuto davvero, un amico con cui hai parlato per anni senza fretta, muore, scompare, si perde in una notte senza strade? Come si chiama la sua assenza irrimediabile? Ha un nome il tempo insensato, feroce, diventato pietra?
(Fotografia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, a Salerno nella Galleria Taide di Pietro Lista. Da sinistra, Angelo Trimarco, Filiberto Menna, Rino Mele, Achille Bonito Oliva)