di Luca Ferrini
L’appuntamento è per il 26 agosto, alle ore 21,15, in largo Santa Maria dei Barbuti, nel centro storico di Salerno, per la XXXVII edizione della rassegna estiva di teatro “Barbuti Festival”. Per l’occasione, Massimo Venturiello, poliedrico artista e autentica “Eccellenza” della nostra terra, porterà in scena, in prima assoluta nazionale, “La prima indagine di Montalbano” di Andrea Camilleri. Prima dello spettacolo, l’attore-regista salernitano riceverà il premio “Peppe Natella”. Massimo, cosa rappresenta per lei questo premio? Sono davvero onorato di ricevere questo premio perché è un riconoscimento molto importante. Ho conosciuto Peppe Natella anni fa quando portai al Barbuti, insieme a mia moglie Tosca, uno spettacolo che ebbe, peraltro, un’ottima risposta. Di lui ho il ricordo di una persona eclettica, con interessi particolari che andavano anche oltre il teatro. Attore e regista di teatro, affermatosi poi anche sul grande e piccolo schermo, nonché eccellente doppiatore. Ora il debutto come scrittore con “La Sartoria di Addis Abeba”, che è la storia di un uomo che va alla ricerca delle proprie radici, quelle dalle quali spesso siamo costretti ad allontarci per cercare fortuna altrove. Il protagonista è alter-ego del suo stesso autore? Si, come spesso accade nel primo libro che si scrive, è un po’ autobiografico. E’ un libro che nasce durante il periodo della Pandemia quando, come è capitato a tanti, rinchiusi in casa, è nata un po’ la voglia di ripensarsi, di rivedersi. Ed in me in effetti si è generata questa voglia di scrittura. Il titolo del libro rimanda ad una sartoria in Africa, che era la sartoria del padre del protagonista che in effetti un po’ sono io, un po’ è inventato. Non c’è dubbio che molto materiale sia attinto dalla vita vera, però mi sono preso il lusso di divagare con la fantasia affinché potesse giungere al lettore una storia originale. Lei è nato nel profondo Cilento, a Roccadaspide, quanto e come questa terra, le sue origini, hanno influenzato il suo lavoro? E’ inevitabile che le nostre radici condizionino tutta la nostra vita senza però diventare un diktat. Si parte da lì, poi ci si allontana, si va oltre ma alla fine ritornano sempre prepotenti. Io sono andato via da Roccadaspide che avevo sei anni e da allora ho vissuto sostanzialmente a Roma, anche se il mio lavoro mi ha portato spesso altrove, in Italia e all’estero. Sicchè oggi mi riesce difficile tornare, se non di rado, sia a Roccadaspide che a Castel San Lorenzo, paese ove è nato mio padre. Ma sono profondamente legato ad entrambi. E le dirò, la mia stessa passione per il teatro nasce dalle mie origini, dalle antiche feste patronali come quella di San Cosmo e Damiano a Castel San Lorenzo, tanto che il marchio della festa popolare è rimasto ed è ancora presente nelle mie scelte teatrali ove prediligo una grande moltitudine in scena, come in “Masaniello” per esempio. Senza mai abbandonare o trascurare il suo primo amore, ovvero il teatro, è riuscito a sviluppare una filmografia vastissima. Quale la differenza fondamentale tra il recitare al teatro o su un set televisivo o cinematografico? Ogni attore, secondo me, rimane legato alla casa dalla quale è partito. Io sono partito dal teatro e il teatro resta il mio lavoro primario. Anche perché quelle del cinema sono sempre state un po’ delle incursioni tra una tournée e l’altra. Quindi non ho mai approfondito questo rapporto perché, pur amando il cinema, non ho mai sentito di appartenere a quel mondo quanto invece al mondo del teatro. La differenza sostanziale è che mentre nel teatro il centro è l’attore, al cinema il centro è più la regia e l’attore è al servizio della regia. Il lavoro quotidiano è profondamente diverso. Nel teatro sei tu in scena e sai esattamente cosa succede, al cinema fai parte di un ingranaggio che sarà poi manipolato, aggiustato, sistemato. E poi il pubblico, il pubblico per me è fondamentale e io non sono mai riuscito a sostituire il pubblico con la cinepresa. Il personaggio o lo spettacolo che le è rimasto più a cuore? Non ce n’è uno in particolare ma sicuramente il “Masaniello” di Armando Pugliese è stato molto importante per me perché da quello ero partito venticinque anni prima quando, appena diciottenne, avevo visto, dallo stesso regista, la prima edizione di quello spettacolo e, proprio dopo averlo visto, mi iscrissi all’Accademia di arte drammatica. Tra gli spettacoli che ho fatto come regia sono molto legato a “Gastone” di Petrolini, a “la Strada” dal film di Fellini e poi, come più recente, “Il Grande Dittatore” dal film di Chaplin. Il doppiaggio, l’altra sua grande passione. Quale, tra i tanti personaggi illustri a cui ha prestato la propria voce, ritiene di aver caratterizzato e restituito meglio agli spettatori? Il doppiaggio l’ho fatto soprattutto in un periodo della mia vita e ormai sono diversi anni che ne faccio davvero poco per via dei tanti impegni che non mi permettono più di tenere aperta come un tempo quella che considero una simpatica parentesi rispetto al mio lavoro principale. Solo a distanza di svariati anni ho scoperto di aver doppiato personaggi che hanno accompagnato intere generazioni come Kit di “Supercar”, Ade in “Hercules”, Gary Oldman – Sirius Black in “Harry Potter”. Tra tutti però, il personaggio che ritengo di aver caratterizzato meglio come doppiatore è, ai più, sconosciuto ed è il Faust di Aleksandr Sokurov, un capolavoro della cinematografia internazionale ma che, ahimè, non è molto popolare. Un personaggio che ha lasciato il segno in mè in quanto, durante il doppiaggio, mi ci sono immedesimato vivendo il ruolo quasi come se fossi stato l’attore. Lei ha recitato con i fratelli Taviani in “Good morning Babilonia”. Quale ricordo ha di loro e di quel set? Si, ero praticamente un bambino alle prime armi e di loro ricordo una cosa di cui tuttora faccio tesoro: quando fai qualcosa che a che fare con l’arte, che sia un film o uno spettacolo, tu scopri quello che hai fatto solo dopo che il pubblico l’ha visto. E poi mi è rimasto impresso il loro rapporto, difficilmente si lavora in sintonia come ho visto lavorare loro. Come nasce l’idea di portare in teatro il commissario più famoso della narrativa contemporanea italiana e perché ha scelto Salerno per la prima nazionale del suo nuovo spettacolo? E’ nata in seguito allo straordinario successo che hanno ottenuto gli audiolibri recentemente pubblicati in rete dalla Storytel, che io stesso ho avuto il privilegio di interpretare. Ho sentito la naturale esigenza di proseguire il percorso iniziato allestendo un reading teatrale su “La prima indagine di Montalbano”, ove nascono tutti i personaggi dei successivi numerosi romanzi che hanno conquistato l’interesse di milioni di lettori. Ho scelto Salerno per la “prima” perché Salerno è la mia città adottiva, io sono nato a Roccadaspide e per me Salerno è “la città”.