di Oreste Mottola
Passare attraverso le terribili linee dei combattimenti della guerra mondiale nel settembre 1943 e raggiungere gli avamposti angloamericani nel Sud e convincerli dell’inaffidabilità di Pietro Badoglio e del Re. Ne sono convinti al Cln e non si scoraggiano di fronte alle perplessità di Benedetto Croce e qualcuno tira fuori l’ipotesi “dell’ultima carta”. Ed è quella coraggiosa e fascinosa Joice Lussu, compagna di Emilio, eroe della Grande Guerra. Lei è nata come “Gioconda Beatrice” e poi assume il nome di Joice. Toccherà a lei portare agli Alleati combattenti le loro perplessità. Da sola affrontò il viaggio a piedi verso il centro degli Appennini; l’arrivo a Sulmona, poi a Benevento, dove si combatteva e dove i bombardamenti alleati avevano distrutto mezza città, tra morti e macerie, case distrutte, persone affamate, nascoste in gallerie buie per timore dei tedeschi e delle bombe; la marcia attraverso zone occupate dai tedeschi; attraverso la montagna per superare i posti di blocco. Su per la montagna di Solofra (“quassù, ’n coppa ’n coppa, i tedeschi non ci vengono”); l’arrivo a San Severino distrutto in buona parte dal bombardamento, e di americani ancora niente; e quindi via verso Montoro “per boschi e fratte, salendo sempre più in alto”. Ma a Montoro c’erano ancora i carrarmati tedeschi pronti a sparare, le donne rifugiate in casa mentre gli uomini che non erano riusciti a fuggire sui monti erano stati tutti rastrellati e portati via. Sempre marciando per i monti l’arrivo a Cervanico, ma anche lì c’erano ancora i tedeschi “Gli americani erano ormai per me una specie di miraggio irraggiungibile. Nella mia mente annebbiata dalla stanchezza e dalla fame, mi vedevo correre per tutta l’eternità di villaggio in villaggio, cercando gli americani e trovando i tedeschi”. A Cervanico “salii in alto sopra sul bosco, per rendermi conto del luogo e della situazione. Si vedeva tutta la piana di Salerno fino al mare. Si combatteva. Gli alleati stavano attaccando. Uno sbarramento continuato di polvere e di fumo tagliava la pianura in tutta la sua larghezza, marcando la linea del fuoco. Ceramico era sotto il tiro dei cannoni e la terra tremava. Il fracasso era assordante. I cannoni della marina inglese tuonavano dal mare. A ovest, verso Acerno, tuonavano i cannoni americani. Ai piedi del colle, i mortai tedeschi. In alto, sopra di me, le artiglierie leggere spostate sulle alture. E la linea del fuoco era così vicina, che s’udiva il crepitio delle mitragliatrici, e i colpi secchi della fucileria. Ogni tanto una granata passava fischiando sopra la mia testa”. Riprese la strada delle montagne, lontano dai sentieri, in mezzo a fratte fittissime, letti pietrosi di torrenti e poi dove i pendii erano arsi, bruciati dalle bombe; salite e discese, cambi di rotta, per tenersi lontana dalle batterie tedesche. L’obiettivo è Giffoni. Quando finalmente è arrivata al campo americano venne guardata con sospetto e trattata con freddezza. Trattenuta e portata a Paestum dove era il comando della Quinta Armata si è trovata prigioniera degli alleati e sottoposta a interrogatori da parte di ufficiali dei servizi segreti americani e inglesi (scandalizzati che non fosse monarchica, ha scritto anche con nota ironica). Dopo 4 giorni ha iniziato lo sciopero della fame e dopo due è stata portata ad Agropoli per un altro interrogatorio dell’Intelligence Service. Dopo qualche giorno un capitano inglese andò da lei: era però il fratello, Max Salvadori, che non vedeva da sei anni. Combatteva con l’uniforme britannica perché essendo nato a Londra aveva doppia nazionalità, italiana e inglese, e si era arruolato nella Special Force dell’esercito inglese col nome di Sylvester. Avendo saputo che una signora italiana dalle idee molto estremiste, un po’ particolare e sicuramente anticonformista, che aveva passato le linee, era trattenuta dal comando alleato. Max aveva pensato che fosse Joyce. Riuscì a portarla via, a Capri dove si trovava Benedetto Croce con numerosi altri esponenti dell’antifascismo. “L’arrivo a Capri dalla zona di guerra fu per me una sorpresa. A Capri, pareva che la guerra non ci fosse”, era tutto molto elegante e di lusso. Lei che aveva “visitato i gironi dell’inferno” si trovava in un altro mondo, che non era stato spazzato via come il resto. Fece incontri con gli alleati per organizzare i lanci di armi alle formazioni partigiane (il primo avvenne sul lago di Bracciano) e riunioni a Napoli con il Partito d’Azione, dove gli alleati le sembrarono degli occupanti colonialisti. A Roma, il 20 settembre 1943, dopo pochi giorni dall’Armistizio e dallo sbarco anglo – americano nel Golfo di Salerno, il C.L.N. sottopose a Joyce una missione rischiosa: ” E’ necessario prendere contatto con gli alleati. Abbiamo mandato qualcuno dei nostri a passare il fronte con questa missione, ma o son caduti o non hanno potuto continuare.Forse per una donna sarebbe più facile. Vuoi tentare?”. Codice “Simonetta”, si organizzò per prendere il primo treno disponibile per il Sud Italia.Cambiando spesso treno e tratia ferroviaria, viaggiò su scomodi e affollati vagoni, strapieni di militari smarriti, confusi e desiderosi di ritornare a casa. Dopo due giorni di viaggio, il treno si fermò a pochi chilometri da Benevento. La linea ferroviaria era interrotta a causa dai bombardamenti anglo – americani. Joyce decise di superare il fronte percorrendo dei sentieri poco battuti. Conclusa la missione decise di tornare a Roma. Il fronte era in movimento e i territori attraversati per giungere fin lì ora erano in mano agli alleati “I tedeschi si ritiravano quasi senza combattere. Gli americani facevano la guerra da signori. Bombardavano le località fino a che i tedeschi non si decidevano ad andarsene, e quando i tedeschi se ne erano andati, dopo qualche ora arrivavano in autocarro, fra l’esultanza della popolazione liberata dai nazifascisti e dai bombardamenti”. Arrivata alla linea di confine dove i tedeschi c’erano ancora, al di là del ponte a Guardia, riprese la strada delle montagne, sempre sulle vette, stavolta non più da sola ma con la guida di un ufficiale italiano. Diretta al Massiccio del Matese incrociò un gruppo di soldati tedeschi prepotenti e ubriachi ma li sorprese parlando tedesco e affrontandoli senza timore. Continuò il viaggio tra incontri folcloristici e rischi vari, attraversando centri devastati dalle bombe e territori che i tedeschi avevano riempito di mine. Infine l’arrivo a Roma. Ovviamente non convinse gli Alleati a cambiare opinione su Badoglio ed il Re.