Iliade, il gioco senza fine tra umano e divino - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Iliade, il gioco senza fine tra umano e divino

Iliade, il gioco senza fine tra umano e divino

Gemma Criscuoli

Una voce nel buio chiede alla Terra, madre di ogni cosa, e al cerchio del Sole, che tutto vede, di guardare allo strazio provato da un dio. Deve, in effetti, essere gravoso non conoscere più i confini della propria grandezza, soprattutto se quella stessa possanza suscita il sorriso e non certo la venerazione. Affascinante equilibrio tra sarcasmo e dolore, tra leggerezza e profondità. “Iliade-Il gioco degli dei” ha ottenuto un ampio successo presso il Teatro Verdi. La drammaturgia di Roberto Aldorasi, Francesco Niccolini, Marcello Prayer e Alessio Boni, qui nelle vesti di un memorabile Zeus accanto alla convincente Antonella Attili, che impersona Era, prende corpo sul testo di Francesco Niccolini, liberamente ispirato al capolavoro omerico. Il cast, che comprende Haroun Fall, Jun Ichikawa, Liliana Massari, Francesco Meoni, Elena Nico, Marcello Prayer, domina il palco impedendo anche il minimo calo dell’attenzione. Libertà e costrizione, desiderio e capriccio del fato sono i due estremi tra cui si snoda una riflessione sul limite saggiamente antiretorica. Gli dei che si ritrovano su una spiaggia sembrano aver dimenticato ogni sacralità. Sotto gli occhi di Teti, severa e cupa, ma comunque apostrofata come ninfetta sottomarina, il signore dell’Olimpo è smemorato e irascibile, Ares, che dovrebbe incutere vivo terrore, è trattato al pari dello scemo del villaggio, Atena è etichettata come “fuori di testa”, Afrodite è troppo autocompiaciuta per nutrire dubbi su di sé, Ermes ama l’imprevedibilità, Era fa fatica a sopportare le intemperanze del marito e dei suoi numerosi figli, Apollo si ritrova nei versi di Rilke, ma, per quanto si abbandonino al sirtaki (perché divino è il ritmo del mondo), su tutti incombe la stessa domanda: quando è cominciata la caduta? Quando le creature immortali hanno iniziato a confrontarsi con la perdita di senso? Per comprenderlo, devono tornare alla storia che ha generato tutte le altre: la guerra di Troia. Ecco allora che gli dei, manovrando creature e oggetti di scena di Alberto Favretto, Marta Montevecchi e Raquel Silva, impersonano i protagonisti del poema, esprimendo l’intreccio tra umano e divino narrato da Omero e la fertile simbiosi tra gli opposti: ciò che è immortale e ciò che è fragile vibrano all’unisono, l’uno insegue l’altro senza sosta, perché quel che è destinato alla morte sogna di lasciare una memoria perenne e chi si muove al di fuori del tempo e dello spazio si nutre del richiamo dell’effimero. Scene emblematiche sono, per esempio, il connubio fisico tra Paride ed Elena, umiliata dalla dea poco prima, ma comunque strumento della sua volontà, che avviene carezzando il corpo di Afrodite o l’attento sguardo dei celesti dinanzi alla lotta tra Ettore e Achille combattuta al buio, perché l’ira annebbia la mente, e il principe troiano domatore di cavalli non può che giungere dalla platea, visto che l’ego del Pelide sembra abitare l’intero palco. Di conseguenza, le divinità possono apparire quanto vogliono da ponti sollevabili, rigorosamente posizionati in alto a ricordare la loro superiorità: il cielo non sa fare a meno degli esseri umani, di quella loro fragilità che sfida l’Ade, tanto che Apollo afferma “Quei fatti non furono mai ma furono sempre”. Ogni dettaglio della regia di Boni, Aldorasi e Prayer fa sì che scarnificazione del mito e consapevolezza di quanto pesino le illusioni della vita si bilancino. Il cerchio rosso, che sovrasta la scena e che fa pensare a un’eclisse, ricorda come fine e inizio combacino. I vani tentativi di Zeus di accendere il braciere all’inizio dello spettacolo o i suoi fulmini, che non vanno a segno come vorrebbe, denotano l’incapacità di portare luce nel buio dell’insensatezza. La rapidità fulminea con cui Era piega strategicamente il marito alle sue voglie deride la preponderante sessualità maschile, ma anche la possibilità di creare nuove vite e, quindi, nuovi approcci alla conoscenza in piena armonia tra visibile e invisibile. Quando Achille osserva Priamo, che lo scongiura in lacrime di restituirgli il cadavere di Ettore, si trova sulla scala collegata al ponte da cui appaiono gli altri esseri divini, perché le proprie origini lo spingono a sentirsi, ma invano, vicino a loro. Nelle ultime battute, ecco la risposta tanto attesa: l’orrendo massacro della città, occupata con l’inganno dai Greci, segna la frattura tra umano e divino, perché la guerra è un vicolo cieco. Gli esseri supremi hanno mai davvero dominato gli uomini? O piuttosto ne rappresentano lo specchio? Chi ha creato l’altro a propria immagine e somiglianza? Sciogliere l’enigma, tuttavia, è vano quanto credersi vittoriosi dinanzi alla Moira o pretendere di sfuggirle. Si comprende, allora, come non esista differenza tra chi abita la Terra e chi vuol dominarla dall’alto. L’eternità e la morte coincidono, si ritrovano a osservare entrambe il deserto a cui può condurre il cuore nero degli uomini, in attesa, forse, che un nuovo Omero torni a cantare, che il grande gioco ricominci.

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