In questi giorni si è scatenato un acceso dibattito in ogni dove, dalla strada alla “piazza” social sulle visite agli altari della reposizione, sulla serrata del Duomo e di tante chiese care ai Salernitani, a causa dell’accorpamento nell’Unità Pastorale centro storico, presieduta da Don Felice Moliterno
di Olga Chieffi
“Le chiese devono avere sempre le porte aperte, perché questo è il simbolo di cosa è una Chiesa, sempre aperta. La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Cosicché, se qualcuno vuole seguire una mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di una porta chiusa”. “Le chiese, le parrocchie, le istituzioni con le porte chiuse – ha detto Papa Francesco – non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei!”. Con questo forte inciso, Francesco, qualche tempo fa sottolineò l’importanza di una Chiesa aperta, inclusiva, sullo stile di quella voluta da Gesù. Il Papa, disse: “La Chiesa è “in uscita” o non è Chiesa: o è in cammino» – allargandosi sempre perché entrino tutti – «o non è Chiesa. La Chiesa ha le porte aperte”. Si è scatenato un dibattito, sin dalla sera stessa del Giovedì Santo, per strada, sulla “piazza” social, nei negozi, sulla spiacevole visione della porta del Duomo, chiusa sin dalle 19, e con essa la serrata di tante chiese del centro storico, con l’altare della reposizione allestito nella sola S.Agostino e SS.Apostoli. Per di più, tra i commenti di numerosi “tastieristi” e la parola illuminante di qualche “curiale”, la sottile ironia, con un retrogusto di sprezzo e qualche acciaccatura di saccenza, della sottolineatura tra altare della reposizione e sepolcro, la condanna dello “struscio” e riferimenti alla fondazione dell’Unità pastorale che accorpa chiese e, necessariamente, le chiude anno dopo anno. “Il Signore non chiede giudizi sprezzanti su chi non crede, ma amore e lacrime per chi è lontano”. Lo ha detto il Papa, il quale quest’anno nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo, si è rivolto in modo particolare ai sacerdoti, nel giorno in cui si rinnovano le promesse del sacerdozio. “Le situazioni difficili che vediamo e viviamo, la mancanza di fede, le sofferenze che tocchiamo, a contatto con un cuore compunto non suscitano la risolutezza nella polemica, ma la perseveranza nella misericordia”, questo il monito di Francesco: “Quanto abbiamo bisogno di essere liberi da durezze e recriminazioni, da egoismi e ambizioni, da rigidità e insoddisfazioni, per affidarci e affidare a Dio”. Oggi siamo molto soli, non nel senso che la solitudine sia un’eccezione, perché è una dimensione propria dell’essere umano, ma siamo soli perché isolati, ognuno chiuso nella propria monade, incapace di rapportarsi all’altro in modo aperto e generoso. La nostra religione è l’opposto di questa situazione, perché è costitutivamente dialogo. La cattiva “paideia”, ha portato ad una società dei conflitti, alla produzione di “Legni storti”, per dirla con Kant, per una mancata educazione all’umanità positivamente intesa, non ci si pone, in questo modo, più alla ricerca della Verità. Siamo vittime di una deprivazione pathica, insensibilità alla differenza, che ha il suo fondamento nell’illusione della ricerca di un senso della vita nelle cose in-differenti e non piuttosto, nell’evento del sentire, nell’emozione vissuta. Ecco che anche trovare la porta aperta del Duomo e di altre chiese, il rinnovare il ricordo di una tradizione antica, quel dire, i gesti, il percorso, il racconto, gli aneddoti, di quanti non sono più, certi improvvisi sussulti della memoria capaci di restituire, magari nella folgorazione di un istante, ma con esattezza stupefacente, non soltanto visiva ma perfino olfattiva e tattile, emozioni misteriosamente registrate dalla memoria, potrà avvicinare a credere in quel “Passaggio”, quel “passare oltre”, che è il significato della parola Pasqua, derivante dalla Pèsach ebraica. Passare oltre è attraversare una soglia, un limite, una porta, prendere una decisione: andare in chiesa anche solo “a vedere i fiori”, riconoscere i simboli posti sull’altare, discuterne, ritrovarsi, comunque, consapevolmente nella bellezza, significa aver compiuto un’azione etica, che assumerà caratteristica comunicativa e sociale in un “luogo familiare”, mentre la familiarità del luogo potrà di nuovo assumere il tratto di condizione necessaria di ogni progettualità, non solo religiosa, ma anche civile. Ci si è ritrovati Giovedì Santo con sole cinque chiese aperte e le restanti, per di più di grande tradizione, care ai salernitani, inesorabilmente serrate, a cominciare dal Duomo, la Chiesa del Crocifisso, Santa Lucia, Santa Rita, Sant’Anna al porto, San Benedetto, San Michele, San Giorgio, quest’ ultima, insieme alla cattedrale, veramente divenuta museo, con tanti limiti, a tratti scostante. Il Papa ha sempre parlato di “inquietudine”, affermando di volere una “Chiesa inquieta” e di preferirla “accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade”, piuttosto che rimanere chiusa nelle sue torri d’avorio. Una chiesa che agisca in strada, magari insicura, ma aperta, non “ossessionata dal potere” e che, soprattutto, possegga il “volto della Madre”. Tenere aperte le chiese in giorni particolari, come la settimana della Passione, si deve e si può. Ci sono i parrocchiani, i diaconi, gli scout, i membri delle congreghe, i volontari, gli studenti, a loro e a noi tutti il compito di far attuare quel “passaggio”. La chiesa “in uscita”, intesa in questo modo, non potrà dire, attraverso la “porta aperta”, la sua bocca spalancata, che un “arrivederci”, un invito a tornare, con maggiore maturità e consapevolezza, per discernere, giudicare, orientarsi, criticare, domandarsi e rispondere, ovvero realizzare l’unico vero esercizio filosofico, quell’andare oltre il tempo umano, evocando la carnalità dell’ Erlebnis, “vivendo” l’inventiva improvvisazione dell’emozionale.