La Compagnia Liberaimago incanta il pubblico di Ablativo con lo spettacolo di Fabio Pisano, ospite del teatro Ghirelli e della VII edizione di Mutaverso, firmata da Vincenzo Albano
Di Gemma Criscuoli
“Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si nun rivedrò a famiglia mia, è colpa di quella venduta. Rivendicatemi”. La frase è ripetuta ossessivamente dai due uomini sul palco, mentre la donna è di spalle e si abbandona a una lenta danza sulle note di “Ti parlerò d’amor”, senza curarsi di ciò che ha intorno. La Compagnia Liberaimago racconta come non ci sia abisso più profondo di quello che separa oppressi e oppressori in “Celeste”, lo spettacolo – tratto da una storia vera- diretto da Fabio Pisano con le musiche dal vivo di Francesco Santagata e interpretato da Francesca Borriero, Roberto Ingenito e Daniele Marino. L’allestimento ha rappresentato, presso il Teatro Ghirelli, la terza tappa di Mutaverso, il progetto curato dall’Associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Oggi sappiamo che le parole iniziali, l’unica prova scritta della colpevolezza della protagonista, furono scolpite sul muro di una cella da una delle tante vittime di Celeste Di Porto, ragazza seducente e amorale, che, nella Roma del 43, per assicurarsi una ricca vita tranquilla, fu una delatrice dei nazisti e non fece distinzioni tra bambini, donne o anziani. Bastava un suo saluto, un suo sguardo a indicare il condannato di turno. E dato che i corpi sono merce, bersaglio, oggetto del desiderio, Pisano si basa esclusivamente sulla messa in gioco totale dei tre interpreti, che si muovono con appassionato rigore tra cinismo, amarezza e violenza. Le scelte registiche restituiscono la torbida concitazione del momento con un’essenzialità che resta impressa. I momenti della rappresentazione (primo quadro, 8 settembre ‘43…)sono scanditi dai soli uomini, dato che la giovane agisce nell’ombra. La camminata di Celeste sul posto, mentre saluta i malcapitati che si ritrovano con le mani legate o sopraffatti, comunica l’inesorabilità del suo percorso funesto. Un corpo resta in scena mentre la donna è col suo amante, dato che è per lei naturale costruire sulla pelle degli altri la propria felicità. Il padre che, esasperato, picchia la figlia degenere, si accanisce contro una sedia: l’insensibilità della delatrice ricorda la mancanza di vita di un oggetto. Quando Celeste fugge e si prostituisce per sopravvivere, mentre gli attori le girano intorno con improbabili dichiarazioni d’amore, lei è coperta dalla giacca lanciatole addosso da uno dei due, perché, ancora e sempre, è solo un corpo da usare che gli altri vedono in lei. Sono coerenti con il contesto anche le deformazioni sonore che Santagata attua su brani celebri dell’epoca, come “Chitarra romana” o “Maramao, perché sei morto?”: le canzoni, del tutto ripensate pur nella loro riconoscibilità, rendono la storia di Celeste scomodamente vicina, costringono a non confinare nel passato qualcosa che potrebbe accadere in ogni momento. La fame di vita della “pantera nera”, come era soprannominata, il suo bisogno di ascoltare solo i propri istinti sono ripagati dalla solitudine: tutto la divide dai familiari, dai nemici, da chi l’ha sfruttata. Non può esistere nessun luogo per chi ha superato tutti i limiti e del limite stesso non ha (non vuole avere) cognizione. Nel dialogo con il pubblico alla fine dello spettacolo, Pisano ricorda che la scritta di Anticoli, che Celeste segnalò ai nazisti per salvare il fratello Angelo, è stata cancellata una volta ridipinta la cella. Rimuovere è, del resto, un comportamento caro agli Italiani. Il teatro esiste anche per questo: aprire gli occhi che preferiscono restare ostinatamente chiusi.