Al Verdi la fiaba “nera” di Re Chicchinella - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Al Verdi la fiaba “nera” di Re Chicchinella

Al Verdi la fiaba “nera” di Re Chicchinella

Olga Chieffi

“Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile è un’opera straordinaria che racchiude in sé un mosaico di influenze culturali e linguistiche, riflettendo la ricchezza della tradizione popolare napoletana e l’eleganza del contesto barocco. Basile si distingue non solo per la sua abilità nel narrare fiabe, ma anche per la maestria con cui intreccia diversi registri linguistici, creando un linguaggio unico che è al contempo popolare e colto. La fusione di dialetto napoletano e strutture sintattiche ispirate al “Decamerone” di Boccaccio evidenzia la sua capacità di attrarre e intrattenere un pubblico eterogeneo. Le espressioni gergali e le invettive plebee si alternano a metafore parodistiche che arricchiscono il testo di vivacità e colore, mentre l’erotismo e i sentimenti umani si manifestano con una spontaneità che rende le storie accessibili e coinvolgenti. L’aspetto teatrale dell’opera è particolarmente significativo: i dialoghi e i monologhi dei personaggi risuonano di una musicalità che ricorda la Commedia dell’Arte, suggerendo una continua interazione tra narrazione e performance. Questa dimensione teatrale si collega anche a tradizioni più ampie, come quelle shakespeariane, suggerendo che Basile potrebbe aver attinto a un repertorio comune di temi e stili che circolavano oralmente. Emma Dante nel mettere in scena “Re Chicchinella”, in scena al Teatro Verdi di Salerno da questa sera alle ore 21, sino a domenica quando ci si ritroverà al massimo cittadino alle ore 18, fa un tentativo di mantenere viva la complessità dell’opera originale, semplificando al contempo il linguaggio senza perdere la sua vitalità e il suo ritmo, andando a chiudere una trilogia, iniziata con La Scortecata e Pupo di zucchero di un’opera che trascende il suo tempo, rivelando le profonde connessioni tra cultura popolare e alta letteratura, rendendo omaggio a questa tradizione, rinnovandola, portando il climax delle fiabe napoletane speriamo alle nuove generazioni di spettatori. La regista siciliana riesce infatti a conferire una nuova linfa alla fiaba, trasformando la sua essenza attraverso una lente di ironia e leggerezza. Questo approccio non solo rende la storia più accessibile, ma invita anche il pubblico a esplorare le tematiche profonde che spesso si celano dietro narrazioni apparentemente semplici. La scelta di privilegiare il divertimento rispetto alla morale classica è particolarmente significativa nel contesto attuale, dove la società tende a focalizzarsi su emozioni forti e problematiche complesse. La Dante, invece, opta per un’esperienza teatrale che celebra la vivacità delle radici culturali locali, riscoprendo il valore della tradizione in chiave contemporanea. La sua opera diventa così un mezzo per riattivare il racconto, conferendogli nuova vita attraverso un linguaggio visivo e performativo ricco di colori e sfumature. In questo modo, la metafora della metamorfosi si fa centrale: non solo il racconto si trasforma, ma anche la percezione del pubblico, invitato a ridere e a riflettere al contempo. La regista, con questa trilogia, sembra, infatti, voler promuovere un’idea di teatro che è al contempo un atto di resistenza e di celebrazione, un modo per ricondurre alla luce storie dimenticate, donando loro una rinnovata vitalità e un significato attuale. La magia della fiaba si riaccende, mostrando così che attraverso il teatro è possibile dare voce a verità profonde e nascoste, senza perdere di vista il piacere e la gioia dell’ascolto. Il dramma di Carlo III d’Angiò si dipana in un’atmosfera cupa e grottesca, dove la malattia e la decadenza si intrecciano con l’avidità e l’opportunismo della corte. La figura di Carlo, al quale dà voce Carmine Maringola, è quella di un sovrano inesorabilmente piegato dalla malattia, il cui cancro diventa simbolo della sua stessa regalità: una maledizione che alimenta le speranze di un’intera corte priva di scrupoli. La sua immobilità e il suo dolore fisico riflettono la fragilità di un potere che, pur essendo formalmente in alto, è in realtà minato dall’inevitabile declino.

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