di Peppe Rinaldi
Se un Comune è proprietario al cento per cento di una società, non significa che il sindaco in carica ne sia automaticamente amministratore «di fatto»: a meno che non venga provato un suo diretto intervento, fattivo concreto e continuato, nella gestione della società stessa. Con questo principio la quinta sezione penale della corte di Cassazione (sentenza n.7723-2024, presidente Rosa Pezzullo, relatrice Egle Pilla) ha assolto dall’accusa di bancarotta fraudolenta impropria l’ex sindaco di Eboli Martino Melchionda.
Sembra un concetto elementare, diremmo quasi banale, quello elaborato dagli alti magistrati chiamati a giudicare su un caso particolarmente complesso, in realtà si tratta di una sentenza dal carattere innovativo che contribuisce a mettere un po’ d’ordine su un tema intricato e a lungo dibattuto. Questo: se io sono sindaco di una città e in questa città il comune da me guidato è titolare esclusivo della proprietà di un ente e questo ente viene gestito «a mentula di cane» dagli amministratori fino al punto da condurlo dal fallimento, significa che io, in quanto sindaco e «proprietario», sono in automatico corresponsabile della bancarotta? Sì – dice la corte – ma soltanto se viene provata la tua diretta ingerenza nelle cose e nella vita della società, altrimenti non lo sei e, quindi, le accuse formulate nei tuoi confronti sono da respingersi e tu andrai assolto. Detto fatto, Roma locuta, causa soluta. Solo che tra il detto e il fatto ne è scorso di «sangue» tra le opposte visioni della medesima fattispecie, segnale, in sé, di una certa vitalità di una materia che interessa ampie fette di popolazione dal momento che la bancarotta scatta – essa sì – in automatico, sia che si rappresenti colossi aziendali, sia che vi incappi uno sfortunato fruttivendolo. Ora, con questa sentenza, la Corte ha tracciato una linea che separa definitivamente (diciamo) la responsabilità di un sindaco e la vita della partecipata dell’ente. A certe condizioni, chiaro. «A meno che non vi sia prova della sua qualità di amministratore di fatto» – dicono i giudici- «la sua responsabilità sarà configurabile solo come “extraneus”, concorrente nel reato, a condizione però che sia dimostrato lo specifico contributo fornito al legale rappresentante della società». E, nel caso dell’ex sindaco Melchionda, questo contributo non è stato provato, quindi non c’è stato, perché nella sua veste di sindaco non aveva «poteri impeditivi dell’evento per il quale era a processo»: in parole povere, non poteva impedire che gli amministratori adottassero quelle condotte pregiudizievoli per la salute della società che li hanno poi fatti finire alla sbarra. Ripete, ancora, la Corte sostenendo che «non è ravvisabile una responsabilità penale del sindaco sulla base della mera qualifica rivestita e della coincidenza di legale rappresentante del Comune socio unico della società in house e di rappresentante dell’ente locale: se non vi è la prova della sua qualità di amministratore di fatto della società partecipata, la sua responsabilità sarà configurabile solo quale extraneus concorrente nel reato a condizione che sia dimostrato in concreto il contributo specifico dallo stesso fornito al legale rappresentante della società». Il contrario dell’impianto accusatorio dei pm e di alcuni giudici (in I grado Melchionda era stato condannato) secondo il quale il solo fatto di essere sindaco di un comune che detiene il 100% delle quote di una società, ravviserebbe ope legis una sua responsabilità nella gestione: ora è stata fatta chiarezza, ripetiamo, e questa responsabilità va dunque provata individuando con certezza dove, come, quando e perché il sindaco si sia intromesso nelle decisioni degli amministratori o nella vita stessa della partecipata. Appare così esser stato fatto, alla luce della sentenza, un passo in avanti, piccolo ma significativo, della civiltà giuridica cosiddetta. Su questi presupposti si sono sfidati a duello in molti casi nei tribunali italiani accusatori e difensori, da gennaio di quest’anno le cose saranno più chiare (forse) con la sentenza di Cassazione sulla vicenda ebolitana.
Si chiude così una lunga e contorta faccenda, quella della ex Multiservizi spa, iniziata col fallimento del luglio 2015, procedura azionata dopo una meticolosa e accurata istruttoria fatta dall’allora consigliere comunale e presidente della Commissione consiliare di controllo e garanzia, il dottor Lazzaro Lenza. Gli atti raccolti furono poi condensati in una specifica denuncia depositata da questi alla Guardia di Finanza di Eboli, in seguito alla quale partirono le indagini. Il quadro che ne emerse, effettivamente, fu preoccupante per il sostanziale sventramento delle casse della Multiservizi per mano sia di figure e figurine che giravano al tempo tra i corridoi della società, sia per il mantenimento dei livelli occupazionali dell’epoca, fattore quest’ultimo che, da solo, rappresentava un pozzo senza fine di necessità finanziarie. Scattarono, ovviamente, logiche di natura politica ed elettorale, con le tipiche perversioni del caso miste alla cupidigia o al rilassamento di qualche amministratore della società che, di fatto, portarono la massa passiva della Multiservizi a cifre debitorie con sei zeri.
Melchionda, difeso dall’avvocato Costantino Cardiello in I grado, poi dallo stesso e dall’avvocato Silverio Sica in Appello e Cassazione, optò per il rito abbreviato (per gli altri, amministratori e revisori dei conti, è in corso il processo ordinario) cioè a quella formula prevista dalla legge del poter scegliere, da parte dell’imputato, di sottoporsi al processo sulla base degli atti contenuti nel fascicolo fino a quel momento: una richiesta accolta e che oggi, dopo che la procura generale di Salerno aveva fatto ricorso per Cassazione contro l’assoluzione di Melchionda nel II grado, non solo libera l’ex sindaco da un autentico macigno – e questo è un suo fatto personale – ma fornisce al diritto un argomento di discussione depurato da incertezze e ambiguità per il futuro. Almeno si spera.