di Nicola Russomando
Il Dicastero vaticano della Dottrina della fede ha pubblicato il 18 dicembre scorso la dichiarazione “Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni”. Con linguaggio eminentemente ecclesiastico la questione che vi si tratta è quella delle benedizioni a forme di unioni “irregolari”, anche dello stesso sesso. Questione molto dibattuta, al centro anche di “dubia” presentati alla vigilia dell’ultimo sinodo da cinque cardinali a papa Francesco, oggetto già di un più classico “responsum” negativo dello stesso dicastero di appena due anni fa, che oggi, sotto forma di chiarimento, viene totalmente ribaltato dall’attuale dichiarazione. Se in passato la Chiesa cattolica maturava ripensamenti su aspetti della sua disciplina in termini di secoli, oggi la rapidità del cambiamento appare del tutto in linea con la mutevolezza della società.Dall’arcivescovo di Salerno Bellandi, nella consueta intervista mensile al portavoce della diocesi, la novità è stata ricondotta, in modo alquanto riduttivo “all’attenzione che la Chiesa riserva ad ogni percorso umano, ad ogni legame affettivo che sia sotto la luce di Dio”. Non così a giudizio di molti teologi che leggono nel documento i presupposti di una prassi contraria alla dottrina.
Infatti, a leggere il testo, la dichiarazione, non senza malcelata disinvoltura, si pone come chiarimento del precedente “responsum” negativo senza caducarne l’efficacia. Infatti, se prima si affermava che la Chiesa “non ha il potere di conferire la sua benedizione liturgica quando questa, in qualche modo, possa offrire una forma di legittimazione morale a un’unione che presuma di essere un matrimonio oppure a una prassi sessuale extra-matrimoniale”, pur mantenendo fermo il principio, la dichiarazione aggiunge che “si deve altresì evitare il rischio di ridurre il senso delle benedizioni soltanto a questo punto di vista, perché ci porterebbe a pretendere, per una semplice benedizione, le stesse condizioni morali che si chiedono per la ricezione dei sacramenti”.
Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato, con la “Evangelii gaudium”, aveva avvertito la necessità di dare impulso a processi di cambiamento in nome del postulato che la realtà è più grande dell’idea. Oggi, con questa dichiarazione, il processo di riduzione dei sacramenti a morale, come denunciato dal teologoGiulio Meattini, sembra realizzarsi nella misura in cui tutta la materia viene sottoposta a forme di discernimento personale, quindi al dominio della discrezionalità individuale. A salvare una certa coerenza tra il prima e il dopo, nelle intenzioni del Dicastero,soccorre il difetto di ritualizzazione da cui queste benedizioni dovrebbero essere caratterizzate, tale da evitare il rischio di confusione con “quanto corrispondente al disegno di Dio per l’uomo”. Infatti, la dichiarazione ha cura nel precisare che “nell’orizzonte qui delineato si colloca la possibilità di benedizioni di coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso, la cui forma non deve trovare alcuna fissazione rituale da parte delle autorità ecclesiali, allo scopo di non produrre una confusione con la benedizione propria del sacramento del matrimonio”. A parte che già alcune conferenze episcopali, come quella del Belgio, hanno già provveduto da tempo a ritualizzare queste benedizioni a dimostrazione di una prassi ben oltre la dottrina, non ci si può sottrarre all’impressione di un linguaggio che, nella sua liquidità, integra la contraddizione. La ritualità è parte costitutiva dell’esperienza umana soprattutto in ambito religioso, laddove l’espressione è vincolata a moduli che si pretendono sottratti al puro arbitrio linguistico per assumere un significato in se stesso trascendente. La dichiarazione, facendo leva su un valore ascendente della benedizione, dall’uomo verso Dio, radica questa nello spontaneismo quale condizione per la sua legittimazione. Quest’ultima è individuata per l’estensore della dichiarazione nella categoria della “pietà popolare”, che sempre per papa Francesco, in linea con una certa teologia latino-americana, è il mezzo attraverso cui “il popolo evangelizza continuamente se stesso” al di là della forma rituale. E così, per rimarcare la natura deformalizzata di queste benedizioni, la dichiarazione manifesta tutto lo scrupolo di scongiurare anche la connessione con ogni altra forma di ritualità, tanto che “questa benedizione mai verrà svolta contestualmente ai riti civili di unione e nemmeno in relazione a essi. Neanche con degli abiti, gesti o parole propri di un matrimonio. Lo stesso vale quando la benedizione è richiesta da una coppia dello stesso sesso”. Un divieto puramente formalistico che intende collocarsi oltre ogni formalismo.
In realtà, dalle parole stesse di papa Francesco, citate nella dichiarazione, per cui “il Diritto Canonico non deve e non può coprire tutto, né le Conferenze Episcopali devono pretendere di farlo con i loro vari documenti e protocolli, perché la vita della Chiesa passa attraverso molti canali, oltre a quelli normativi”, è la stessa compattezza giuridica della Chiesa cattolica ad essere posta in discussione, quell’ordinamento giuridico che l’ha sempre differenziata dalle altre chiese cristiane e in particolare da quelle riformate, nate proprio dal rigetto del diritto canonico. Se, infatti, ancora nel vigente codice di diritto canonico si legge che “nel porre o amministrare i sacramentali si osservino attentamente i riti e le formule approvate dalla Chiesa”, poiché le benedizioni sono annoverate tra i sacramentali, “segni sacri per una certa imitazione dei sacramenti”, la deformalizzazione di alcune di esse a fini particolari contraddice e svaluta la loro stessa nozione. Nel desiderio di assecondare un’istanza prevalente nella società la Chiesa contraddice se stessa intaccando la compattezza del suo stesso edificio giuridico con il risultato di legittimare forme di subalternità cultuale e del connesso significato. Appare all’inverso ispirato a coerenza quanto affermato di recente sulla questione da un documento della conferenza episcopale dei paesi scandinavi, minoritaria in un contesto storicamente luterano, per cui è legittimo un “temporaneo esilio dai sacramenti” per il cattolico che non si riconosca appieno nei dettami morali della Chiesa, piuttosto che la vaga imitazione di segni deprivati del loro più autentico significato. Anche questo è il risultato di quel processo che assegna priorità alla realtà sull’idea con la conseguenza di appiattire tutto su di essa senza alcuna proiezione ideale, che pure è parte integrante della dimensione del sacro.
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