Trionfa il “Transpose” de’ “La leggenda del pianista sull’oceano” firmata da Antonello Ronga, una performance “corale” della Compagnia dell’ Arte, con il ritorno sul suo palcoscenico di Pina Testa
Di Olga Chieffi
E’ stato un disegnare una cartografia che sovverte le certezze, invece di fissare coordinate precise, quelle di Baricco-Tornatore-Ronga. Così, niente è più fluido ed evocativo di un paesaggio composto da musica, tradizioni, lingue mescolate, perché dai sensi trapelano storie, con la loro densità affettiva e la loro costitutiva eccedenza rispetto al tempo e ai luoghi. E niente di più vibrante di un corpo d’acqua sulle cui rotte avviene la diaspora di ritmi, melodie, vocalizzi, tonalità: l’oceano. “Un’infinità di tracce accolte senza beneficio di inventario”, direbbe Gramsci, lain Chambers, invece sa quanto sia destabilizzante inseguire le scie sonore di un archivio liquido e meticcio e quanto il pensiero di terraferma abbia da guadagnare da un simile spaesamento. E’ giusto questa La leggenda del pianista sull’Oceano, è il nostro Novecento, è il secolo breve che salta in aria con quel piroscafo il Virginian. Al centro della storia un pianoforte, una tromba, e quella musica, il jazz, fatta da bianchi, neri, ebrei, creoli, italiani, sud-americani, musica che come i suoi esecutori, non era stata accettata nella sua terra natale, bandita e disprezzata in mille modi, che ha dovuto, per buona parte della sua storia, cercare di sopravvivere, spiegare e difendere la propria esistenza, per lanciare il suo Urklang di libertà. Il mito è quello del viaggio, si va alla ricerca di un altro mondo, forse impossibile e proprio per questo nuovamente percorribile, in fuga dall’intricata rete delle miserie quotidiane, comunque alle prese con il nostro passato e le presenze multiformi delle nostre paure e dei nostri desideri, poiché l’arte è l’ultima illusione. Antonello Ronga ha affidato il ruolo della musa di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, al sentire danzante di Pina Testa, un ritorno in scena da par suo, la quale ha interpretato la musica attraverso una grammatica affettiva che l’ha resa salvifica, consolatoria, amorosa, perturbante latrice di una risposta, di una promessa e di una responsabilità per il domani. Con lei Francesca Canale, Gabriele Casale, Gianni D’Amato, Teresa Di Florio, Andrea Mauro, Antonello Ronga, Emanuela Emma Tondini, Valentina Tortora e il piccolo Gianmarco Vitale, un felicissimo debutto il suo, unitamente alla prima in palcoscenico di Regina Minopoli, tra le braccia della madre Fortuna Capasso, che ha firmato le coreografie del corpo di ballo composto da Giada D’Ambro, Alessandra Faiella, Davide Guzzo, Annamaria Natella, la scenografia affidata alle Classi V e III E del Liceo Artistico “Sabatini-Menna” a cura dei docenti Elefante, Manenti, Graniti con la direzione di Renata Florimonte. Gli attori, le storie sonore, intrecciate con la musica, hanno offerto quel persistente “rumore” di fondo senza conforto e certezza, destinate a scardinare le configurazioni fisse di tempo , spazio e appartenenza, come il pianoforte danzante sulla tempesta. Il monologo che chiude il libro di Baricco e il film, ha visto il confronto tra il Boodman bambino e l’adulto, interpretato da Antonello Ronga, che non ha inteso metter mai piede a terra. L’artista ha da rimanere bambino per riaccendere la meraviglia, per poi scoprire che l’indicibile, cui l’uomo sempre aspira, non si lascia dire nel dire umano, ma in esso si mostra, di un mostrarsi che spegne la voce e lascia un’ombra (una mancanza, un rado) ombra che abbaglia chi si muove e intensamente cerca, giungendo alla musica, che nasce e finisce nel silenzio. Danza Pina Testa sul solo di flicorno del tema d’amore di Ennio Morricone, il Virginian salta e con esso quel modo di suonare, il ragtime, le grandi big band, in mezzo c’è stata una guerra mondiale, il fungo atomico. Il tempo di quel piroscafo e dello stile di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, era finito nel momento in cui era retrocesso sulla scaletta di sbarco. Chiudiamo con il conforto della parola di un caposcuola. Quando la musica di Count Basie raggiunse l’apice del successo, dopo il 1950, Lester Young – il sax tenore, il solista più importante della vecchia orchestra di Basie, colui che poniamo all’inizio del jazz contemporaneo – fu invitato a suonare con un gruppo di musicisti che un tempo avevano fatto parte di quell’orchestra, per far rivivere in un album lo stile del decennio 1930-1940 declinò l’invito. “…Non posso farlo – disse Lester – non suono più così. Suono in un altro modo, vivo in un altro modo. Ora è più tardi. Questo avveniva allora. Noi ci modifichiamo, ci muoviamo, guardiamo Oltre…”.