Sarà festa stasera, dalle ore 20, al teatro Verdi per il premio Paganini, il quale si esibirà con l’Orchestra Filarmonica Salernitana, diretta da Giovanni Rinaldi. Un ritorno per ricevere l’abbraccio di quanti l’hanno visto formarsi e spiccare il volo dalla propria città
di Olga Chieffi
Era in cartellone Giuseppe Gibboni, ben prima della finale del Premio Paganini. Doveva tornare nel suo teatro, il giovane talento di Campagna, con la valigia sempre pronta, insieme all’intera famiglia, il padre Daniele, la madre Gerardina Letteriello, le sorelle Annastella e Donatella, per girare il mondo, far lezione da Salvatore Accardo a Berman ad Amoyal e affermarsi al Leonid Kogan, al George Enescu, quindi, il premio più prestigioso il Paganini, che ha portato a iscrivere il nome di Giuseppe in un albo d’oro che recita stelle del violinismo internazionale di tutti i tempi. Un concerto questo, durante il quale il suo ed il nostro pensiero volerà certamente all’indimenticato maestro Maurizio Aiello, che qui, al Martucci di Salerno ha diplomato tutti i violinisti Gibboni, da papà Daniele ai tre germani, in cui Giuseppe si presenterà al suo pubblico con il concerto n°1 op.6 di Niccolò Paganini, sostenuto dall’ Orchestra Filarmonica Salernitana diretta da Giovanni Rinaldi. L’opera 6 testimonia la raggiunta maturità di mezzi e di modi, l’eloquio caldo, la vena brillante, una forma adulta e personale, che rimarrà abbastanza costante nel tempo, ponendosi come punto di riferimento per i concerti successivi. Di quale forma si tratti, l’Allegro maestoso d’apertura ce lo dice subito: un avvicendarsi continuo di virtuosismo dirompente e cantabilità diffusa e sempre ricca, per spunti e idee messi di seguito l’uno all’altra, ma non sviluppati. Ed è questa la forma autentica e dominante dei concerti paganiniani, nei cui Allegro iniziali, il riferimento alla forma-sonata, con un primo tema ritmico e il secondo cantabile nella tonalità della dominante o al relativo maggiore, è spesso solo un pretesto, un risalto esteriore. Tanto che all’elaborazione tematica – situazione principe della forma-sonata – e a un dialogo scambievole fra solista e orchestra, si sostituisce in genere, l’avvicendarsi continuo tra proposizioni di tesa o larga cantabilità, eppure spesso quanto mai ardue sotto il profilo esecutivo, a soluzioni dichiaratamente trascendentali ed esibite. Dal canto suo l’orchestra, quando si escludano i Tutti o ritornelli di raccordo, si limita – alleggerita degli archi di ripieno, ad accompagnare il solista e a dargli il maggior risalto possibile, alleggerimento, come scrive Alberto Zedda, probabilmente suggerito dal gran numero di strumenti ad arco che figuravano nelle orchestre ove Paganini era ospite. Nei modi, l’orchestra dell’op.6 appare subito rossiniana. amico intimo di Paganini fin dal 1813. L’Adagio è noto come “aria di prigione”; pare che sia stato ispirato a Paganini da una scena drammatica di prigionia; ma ciò che emerge con maggiore evidenza è l’influenza del melodramma: l’orchestra sembra introdurre un’aria d’opera affidata alla voce del violino. Nel Rondò spiritoso domina una delle specialità di casa Paganini: la melodia cantabile interamente eseguita su una sola corda. la quarta, impegnandosi a dare sfogo alle più iperboliche combinazioni di guizzanti colpi d’arco, di difficilissimi passaggi in armonici doppi, di scale e arpeggi d’ogni genere, fino ad arrivare a registri impervi e acutissimi. Maestro dell’effetto, Paganini riserva per la fine tutti i suoi più mirabolanti fuochi d’artificio, ma quasi con ironia, invitandoci a stare al gioco, a stupirci e divertirci finchè possiamo. Ma tutto il Concerto, in realtà, prevederebbe l’uso di un accorgimento insolito: un violino “scordato”, ovvero accordato un semitono sopra, quindi più brillante in virtù di una maggiore tensione delle corde. La soluzione, probabilmente, era dettata dalla scarsa incisività dinamica dei violini con le corde di budello, ma oggi la sistematica applicazione delle corde metalliche ha portato i concertisti a trascurare definitivamente l’indicazione dell’autore: il Concerto non viene più eseguito in mi bemolle maggiore, ma in re, e il violino solista mantiene la consueta accordatura. La seconda parte della serata saluterà l’esecuzione della prima sinfonia di Ludwig van Beethoven in Do Maggiore op.21. La sinfonia pur restando nei parametri dei maestri del tempo propone alcune importanti novità che riguardano l’orchestrazione, l’armonia e la dinamica. L’orchestra di Beethoven si presenta più folta rispetto a quella dei suoi predecessori con una maggiore presenza dei fiati. Impeto e forza vitalistica se non raggiungono ancora gli sbocchi poetici futuri connotano la cifra stilistica del grande musicista di Bonn. Il primo tempo della sinfonia, Allegro con brio, è preceduto da un’introduzione di dodici battute (Adagio molto), una sorta di ponte tonale che con una certa audacia ci porta da fa maggiore a do maggiore, tonalità d’impianto dell’opera. Prende dunque avvio l’Allegro che presenta un’esposizione piena di slancio drammatico che offre diversi spunti per lo sviluppo, la parte più pregnante del movimento. In forma-sonata è anche il seguente Andante cantabile con moto che inizia con un tema che in stile imitativo passa dai secondi violini a tutte le altre parti dell’orchestra. Pur senza gli azzardi del primo tempo, di rilievo anche qui il gioco delle modulazioni, con la ripresa variata e la coda con la frase di commiato di flauti e violini in moto contrario. Il Menuetto (Allegro molto e vivace) è in realtà il primo Scherzo per orchestra, uno dei luoghi tipici della dialettica beethoveniana cui si contrappone l’umoristico Trio su un implacabile ritmo trocaico. Procedimento sconosciuto a Haydn e Mozart, Beethoven introduce il finale con un Adagio. Esso parte a effetto, con un sol a piena orchestra e poi i violini che, avanzando di tre note e allungando gradualmente la scala, arrivano fino al fa naturale. Parte subito dopo un Allegro molto e vivace alquanto gioioso e propulsivo. Cantabile e flessuoso, il secondo tema si arresta davanti a blocchi di accordi di fiati e archi. Accenni di dramma caratterizzano lo sviluppo, prima che la ripresa ci riporti in un clima festoso che diviene poi nella coda vera apoteosi di do maggiore.