Una Fredda Giornata d’autunno
La speranza di vedere e poter toccare la neve. Un istante di felicità dopo un’amara giornata di novembre nella gabbia dell’Orfanotrofio Umberto I
di Luciano Trapani
L’infanzia dovrebbe essere per chiunque il periodo più bello della vita ma, questo privilegio non è riservato a tutti e, prima di dare un accenno all’unico periodo breve, ma triste, della mia fanciullezza desidero premettere che, tutto sommato mi ritengo fortunato rispetto a quei compagni che, per lunghissimo tempo, non hanno mai sentito il calore del focolare domestico. Per tutti è stata un’esperienza molto dolorosa ma, nonostante tutto, paradossalmente alcuni ne hanno tratto dei notevoli benefici. Infatti, grazie al rinomato conservatorio musicale, alla tipografia, alla sartoria e ad altre opportunità offerte dal collegio, molti sono rientrati nel mondo reale con un diploma o con una qualifica di operaio specializzato. La passione e la perseveranza, dedicata allo studio e all’apprendimento delle arti, li ha premiati. Quel pesante portone finalmente si spalancava per inserirli in quel mondo tanto agognato, del lavoro e della famiglia, proiettati con speranza e determinazione verso un futuro sempre migliore. Vorrei però esprimere la mia solidarietà nei confronti di coloro i quali, per arcani motivi della vita non hanno avuto la medesima fortuna e sono invece rimasti segnati profondamente da ferite mai del tutto rimarginate. Le ragioni possono essere molteplici e giustificabili ed ogni giudizio in merito sarebbe superfluo. Ciò che voglio raccontare della mia breve permanenza in collegio è il ricordo di una fredda giornata d’autunno. Un autunno ormai inoltrato, dal momento che eravamo alla fine di novembre del 1961. Era di venerdì, il giorno più odiato da tutti. Dovevamo alzarci presto, ossia quand’era ancora buio per recarci alle docce. Una volta alla settimana era d’obbligo un completo lavaggio del corpo e chi si asteneva continuando a dormire o a nascondersi veniva ugualmente scoperto e dopo la doccia severamente punito. Di solito si restava senza colazione, ma non mancavano certo gli sganassoni, le tirate d’orecchio o qualche sonoro ceffone. Le docce erano deprimenti! Intanto bisognava farla in due sotto lo stesso soffione perché eravamo in tanti e bisognava far presto. Per detergente trovavamo ai nostri piedi pezzi di sapone con i quali una volta le mamme ci facevano il bucato. Per me l’odore era nauseante! La cosa peggiore era l’acqua che scendeva dai soffioni. Inizialmente era freddissima per poi diventare improvvisamente bollente. Colpa della caldaia che era vecchia e malfunzionante. Quello che mi stupiva però era la pretesa dell’istitutore che nessuno di noi uscisse da sotto la doccia, fredda o bollente che fosse. Dovevamo insaponarci e risciacquarci in fretta per far posto agli altri che nudi e tremanti aspettavano il loro turno. Dopo la doccia (se così si può definire) ci veniva dato come asciugamano un lenzuolo di cotone che al contatto con la pelle ci faceva rabbrividire dal freddo. Pochi secondi per asciugarsi poi bisognava vestirsi più in fretta possibile. Sembravamo più puliti anche se l’odore del sapone ci rimaneva attaccato addosso e ci facevano indossare i medesimi vestiti. I capelli restavano bagnati, ed in ogni caso andavano pettinati. Il venerdì mattina dopo la doccia eravamo così spossati ed infreddoliti che solo una tazza di latte bollente ci avrebbe rinfrancato lo spirito! Già, quel latte il venerdì mattina era un vero toccasana anche se il pane non era mai fresco di forno ma del giorno precedente e talvolta anche di più. Dopo la colazione, tutti in fila per l’appello e guai chi si distraeva e non rispondeva. Poi, dritti verso la scuola. Ricordo quel venerdì per il freddo pungente che faceva. Tra compagni scherzavamo pensando a come sarebbe stato bello vedere la neve perché nessuno l’aveva mai vista. Eravamo molto piccoli, sette anni era l’età media della mia camerata. Il maestro Beatrice (nome alquanto evocativo per Dante Alighieri che ne descrisse le grandi virtù) ci attendeva con la solita riga di legno a portata di mano e mentre entravamo in classe non gli dispiaceva dare qualche scappellotto senza giustificazione. Lo faceva di gusto e per intimidirci. La lezione durava 5 ore durante le quali più che imparare assistevamo alle consuete punizioni corporali che c’infliggeva il maestro. Ad onor del vero di quell’anno non ricordo una poesia, una lettura che mi fosse rimasta impressa ma ho memoria di un giorno in cui, durante una lezione di disegno, per un banale errore presi un ceffone così violento alla nuca che mi fece urtare il naso sul banco. Sanguinai dal naso per più di mezz’ora aiutato solo dai miei compagni di classe. Lui era così arrabbiato che picchiò anche altri compagni, ma non con la riga di legno bensì con un tubo di gomma, prima sulle palme e poi sui dorsi delle mani. Non vedevamo l’ora che arrivasse l’estate per tornare a casa ma soprattutto per liberarci dell’aguzzino che più che un maestro era solo una persona perfida e crudele. Quel venerdì all’uscita di scuola caddero tanti fiocchi di neve che però si sciolsero rapidamente ma noi ne fummo lo stesso felici. In quei giorni bui e senza senso bastava veramente poco per renderci felici. L’ora di pranzo era un’ulteriore sofferenza. Il cibo non era gradito a nessuno ma quando si ha fame non si va tanto per il sottile. Non ci spaventavano nemmeno le formiche che trovavamo dentro al pane o tra i tovaglioli. La frutta? Sempre mele, anzi una mela, piccola ma buona. Era ora di tornare in camerata e da questa di nuovo in classe per i compiti pomeridiani. Il maestro Beatrice per fortuna il pomeriggio non c’era e quindi, dopo aver terminato in fretta i compiti, facevamo tutt’altro. Cantavamo, parlavamo dei nostri genitori oppure. facevamo le collane di carta. Alle 17.00 di sera, talvolta, ci portavano a vedere la tv dei ragazzi, poi a cena, che non era tanta diversa dal pranzo. Talvolta sotto al tovagliolo molti trovavano qualche fetta di provolone semi ammuffito che nessuno mangiava per poi ritrovarle nei giorni e nelle settimane successive finché del tutto deteriorate non venivano buttate via. La sera il rientro in camerata era piacevole solo se ad aspettarci c’era il nostro bravo istitutore Gregorio, altrimenti, dopo il consueto appello, si passava al controllo della giubba e dei pantaloni che indossavamo, nonché delle mani per vedere se fossero sporche. Comunque, puliti o sporchi ci punivano e ci picchiavano lo stesso. La cosa peggiore che potessero fare alcuni istitutori era quello di rendere cattivi anche alcuni ragazzini scelti a caso per farci da caposquadra. Alcuni diventavano a loro volta dei piccoli aguzzini. Andare a giocare nella villetta, era il nostro unico svago serale. Quando non era cattivo tempo ci andavamo spesso. Lì sfogavamo con un pallone tutta la rabbia covata durante tutta la giornata, ma c’era anche chi si metteva in disparte a guardare il mare e le navi in lontananza e magari col pensiero fisso a casa. L’ultima nota dolente era il ritorno in camerata per andare a dormire. Alle nove si spegnevano le luci ed anche se non avevi sonno c’era chi controllava se avevi gli occhi chiusi imponendoti di dormire. In tutte quelle interminabili notti erano pochi quelli che si addormentavano subito. Anche con gli occhi chiusi restavamo svegli, per ore ed ore, pensando a casa, alla mamma, ai fratelli, ai nostri amici più fortunati che nulla sapevano di noi e che, magari, ci avevano pure dimenticati. Ci chiedevamo perché quell’esperienza fosse capitata proprio a noi ma, soprattutto, quando sarebbe finita tutta quella farsa infarcita di cinismo, stupidità e crudeltà. Ad una certa ora anche gli aguzzini si addormentavano, ma io continuavo ad essere sveglio. E giuro che di pianti nella notte ne ho ascoltati tanti, anche il mio. Avevo un fazzoletto profumato di rosa che mi diede mia madre il giorno in cui con una piccola valigia mio padre mi condusse in collegio, era il 21 marzo 1961 (il primo giorno di primavera). Non l’ho mai sporcato nemmeno con le lacrime ma lo tenevo di notte accostato al naso per sentire il profumo di mia madre. Mi sembrava di essere a casa accanto a lei. Grazie a mia madre, dopo due anni e più, tornai a casa contro il parere di mio padre. Lei aveva letto tutto il dolore e le sofferenze che mi portavo dentro. Alcune cose gliele raccontavo, altre le capiva da sola. Era malata di cuore e si sentiva in colpa per me. Mio padre mi aveva messo in collegio proprio per evitarle troppe fatiche ed a mia madre disse che mi trovavo bene e che ero contento perché avevo tanti amici. In verità era questo che credeva anche mio padre ma non era così. Nell’ultima visita che mia madre mi fece, mi trovò pallido, dimagrito e senza calzini in pieno inverno. Avevo anche la voce rauca e tossivo tanto. Arrabbiata voleva che tornassi a casa lo stesso giorno, ma mio padre la convinse a farmi terminare l’anno scolastico, ignorando chi fosse il maestro Beatrice, Questo era solo un giorno, uno dei tanti vissuti in quel collegio di cui solo oggi comprendo lo pseudonimo attribuitogli nel tempo, ossia serraglio. Nessun bambino dovrebbe vivere un’avventura simile. La fanciullezza è una cosa sacra, va coltivata e condivisa con l’amore dei propri genitori e quando questi mancano, il collegio o qualsivoglia istituzione si dovrebbe far carico di sostituirli, esternando loro il medesimo affetto con la stessa intensità e la medesima tenerezza. Oggi non ci sono più i collegi, almeno non quelli simili al serraglio, come qualcuno definì ironicamente il nostro. Persistono solo i ricordi di quel lontano passato, ricordi che molti di noi tengono a ravvivare attraverso un’associazione al fine di preservarne alcuni suoi aspetti positivi, ma anche per un’ulteriore ragione che è quella di ricordare alle future generazioni che la sopraffazione, la coercizione, la privazione della libertà individuale, tanto più quella dei bambini, non dovrà mai più avere ragione di esistere. Il serraglio, purtroppo, è stato tutto questo e noi ci porteremo fino alla fine dei nostri giorni questi tristi ricordi consapevoli che nonostante tutto ne siamo usciti degnamente rafforzati nello spirito, Ci porteremo anche alcuni ricordi positivi, la nota banda musicale, l’esperienza artistica acquisita a suo tempo, brevi ma tangibili momenti di gioia e ancor più la grande fratellanza che ci accomunava allora, come in parte ancora oggi, anche su queste pagine.