Una giovane donna, una mamma, moglie ma, soprattutto, una giovane e splendida avvocata. Valentina Lamberti, sacrificio dopo sacrificio, è riuscita a coronare il suo sogno: diventare avvocato. Anni di pratica accanto a colui che l’avvocato Lamberti definisce il suo Maestro, il noto penalista Michele Sarno e proprio in questi anni ha seguito numerosi processi, da nord a sud del Paese.
Avvocato Lamberti un sogno che si realizza dopo tanti sacrifici…
«Avevo due grandi sogni: avere un bambino e diventare avvocato. Ho scelto di avere, a 28 anni, il grande amore della mia vita, mio figlio Andrea, quando ero già in ritardo col percorso di studi. Al compimento dei suoi 2 anni ho dato avvio ad una serie interminabile di sacrifici per riprendere gli studi, laurearmi, fare la pratica forense e diventare avvocato. Sacrifici che sono stati ampiamente ripagati dalla grande soddisfazione di aver raggiunto l’obiettivo che ho sempre perseguito, seppure con le difficoltà che derivano dal mio ruolo di madre e di moglie».
Moglie, mamma, donna in carriera. La società di oggi rende difficile conciliare questi aspetti e avviare una carriera. Quanto è stato complicato?
«Effettivamente agli uomini sono concessi privilegi maggiori in una società che non aiuta le madri ad essere anche professioniste. Ho dovuto fare affidamento sulla scuola a tempo pieno, ma ammetto che anche mio marito e mia madre sono stati di grande supporto nell’alleggerirmi, soprattutto quando c’è stata necessità di viaggiare per lavoro. Tali possibilità, per un motivo o per un altro, non sono concesse a tutte le donne che hanno voglia di affermarsi. Le madri si trovano spesso a dover scegliere tra l’accudimento dei figli e la carriera. Quante donne sono economicamente capaci di poter optare per la scuola privata? E quante possono fare affidamento sui genitori o sul marito? Ne conosco molte che hanno dovuto rinunciare ai propri sogni e, peggio, ad un lavoro dignitoso. Il nostro Paese, purtroppo, e soprattutto al sud Italia, non rende libere le donne se non hanno una base economica tale da potersi rendere libere da sole».
Nel corso della sua esperienza accanto all’avvocato Sarno lei ha avuto modo di girare diversi tribunali da nord a sud. Cosa cambierebbe del sistema giustizia oggi?
«È stato entusiasmante e soprattutto formativo avere la possibilità, grazie al mio maestro, di essere presente e partecipare in vari processi presso tribunali di diverse regioni italiane. Una tale esperienza ha determinato in me una profonda convinzione prodromica alla realizzazione di alcuni obiettivi irrinunciabili in un sistema che voglia proporsi ed essere giusto. Per fare questo ritengo sia indispensabile recuperare l’estetica del processo.Un processo per essere giusto deve innanzi tutto apparire giusto. Per determinare ciò risulta necessario procedere alla separazione delle carriere. Bisogna evitare che un imputato, entrando in un’aula di giustizia e verificata la confidenzialità tra il giudice ed il pubblico ministero che fa da contraltare al distacco tra il giudice e l’avvocato difensore, possa immaginare che ci sia uno squilibrio tra le parti processuali che lo pregiudica.In quest’ottica bisogna recuperare il ruolo dell’avvocatura nella sua nobile funzione di elemento di tutela ed espressione dei diritti dei cittadini. Da troppi anni assistiamo ad una narrazione del processo in cui l’avvocato viene delegittimato da una vulgata che lo rappresenta sempre più come un azzeccagarbugli e non come la più alta espressione e la sublimazione della tutela dei diritti delle persone. In quest’ottica vorrei che il legislatore intervenga per determinare un riequilibrio tra le parti processuali lanciando un messaggio di rinnovata fiducia nelle istituzioni».
Da donna e da avvocato si sente tutelata?
«La tutela delle donne è un fatto culturale e per quanto il nostro Paese abbia una forma di Stato che, scolasticamente, prevede la piena tutela dei diritti, mi rendo conto che quando c’è necessità che i diritti di una donna siano garantiti, spesso lo Stato non risponde.Lo scorso anno giunse presso il nostro studio legale una donna disperata, in codice rosso, che aveva denunciato l’ex marito per violenza sessuale e minaccia aggravata, minaccia che si era estrinsecata con un coltello puntato alla gola, asserendo che presto o tardi si sarebbe reso responsabile di femminicidio. Il pubblico ministero, che tra l’altro era una donna, aveva fatto richiesta di archiviazione, motivandola riconducendo alla normalità il fatto che un marito debba vincere i rifiuti di una moglie stanca, e definendo il coltello puntato alla gola un gesto goliardico che non integrava minaccia alcuna. Se tali fatti non avessero attirato l’attenzione dei media, forse non si sarebbe mai provveduto alla sostituzione del magistrato e al conseguente incidente probatorio, all’esito del quale il pubblico ministero ha fatto richiesta di rinvio a giudizio, accolto dal gip con fissazione dell’udienza preliminare. Le rispondo alla domanda chiedendole se le donne che non hanno la possibilità di incontrare l’avvocato giusto sono, secondo lei, davvero tutelate. Mi ha chiesto anche se da avvocato mi sento tutelata. Dobbiamo fare ancora molti passi avanti per poter dire di avere, nel mondo del lavoro, equiparazione tra uomo e donna. Troppo spesso alle donne non viene riconosciuto il risultato in relazione al merito ed al talento, tipico di una società arcaica nella quale, spesso, sono le stesse donne a non essere solidali e a comprendere che c’è spazio per tutti».
Si parla oggi di una nuova riforma della giustizia, crede possa essere la soluzione definitiva per evitare processi lumaca?
«Purtroppo nel nostro paese assistiamo da troppi anni ad una serie di riforme che appaiono piuttosto tese a garantire il perseguimento del consenso politico e non certo rivolte a trovare soluzioni adeguate ai problemi di una giustizia malata. Puntualmente assistiamo a dibattiti politici inutili in cui l’interesse non è certo quello di apportare benefici reali ai cittadini. La riforma Cartabia è l’esempio lampante di quanto le dico. Sembra l’elencazione di una serie di precetti normativi slegati dalla realtà che contribuiscono solo ad un’inutile burocratizzazione dell’amministrazione della giustizia. Per una volta vorrei che tutte le parti interessate abbiano il buon senso di sedersi ad un tavolo e, attraverso il contributo fattivo di chi vive davvero i processi ogni giorno (avvocati, magistrati, personale di cancelleria, forze dell’ordine), addivenire a soluzioni ancorate alla realtà. Solo collaborando potremo trovare le soluzioni per rendere più celeri i processi e soprattutto per far sì che i diritti dei cittadini siano tutelati in maniera sostanziale. Forse ci vorrà del tempo, un grande impegno , grandi sforzi ma alla fine resto fiduciosa che le cose possano cambiare. Il mio maestro dice sempre che non dobbiamo perdere il romanticismo e l’umanità della professione ed io condivido questo insegnamento nella convinzione che solo la passione ci potrà rendere liberi e ci consentirà di raggiungere l’obiettivo che ognuno di noi auspica: una giustizia giusta».
Di tanti processi che ha seguito quale le è rimasto più impresso?
«Ne ho seguiti molti che mi hanno colpito, ma mi ha toccato nel profondo sicuramente quello che vedeva imputata una giovane madre per il reato di omicidio, aggravato dall’aver commesso il fatto nei confronti della propria figlia di 4 mesi. Alla neonata in questione venivano garantite tutte le cure da parte della madre che, a causa di problematiche di salute avute sin dalla nascita, era costretta a sottoporla a visite mediche con cadenza settimanale. Una sera la bambina presenta grandi difficoltà respiratorie per cui la madre la scuote nel tentativo disperato di farla riprendere. La corsa in ospedale, l’ecografia che non mostra segni di frattura cranica, il trasporto in elicottero al Santobono di Napoli, l’accesso negato ai genitori in elicottero, la barella per adulti sulla quale la piccola viene trasportata in volo, la successiva ecografia che presenta fratture craniche. La morte della bambina. La giovane donna denuncia i sanitari, ma, nell’incredulità di tutta la famiglia, si ritrova ad essere lei stessa indagata. Dopo un serrato confronto con il pubblico ministero, nel quale la accusa di aver violentemente ucciso la figlia paragonandola alla ormai conosciutissima Annamaria Franzoni del giallo di Cogne, la donna ritorna in macchina dai familiari. In quel momento la donna piange, è scossa, cerca risposte, non accetta la morte della sua piccola figlia e si colpevolizza sulla base di quanto contestatole dal pm. Dice che “evidentemente” è stata lei ad uccidere sua figlia quella volta che l’ha lasciata cadere sul fasciatoio. Alla donna viene contestato l’omicidio volontario, ma viene punita con una sentenza di omicidio preterintenzionale che potrebbe separarla per 10 lunghi anni dal figlio successivamente nato dopo la morte della piccola. Una donna che imprime una forza immane tale da fratturare le ossa craniche alla figlia su una superficie morbida come quella del fasciatoio, non utilizza il termine “evidentemente”. Ne sarebbe assolutamente certa.Quanti punti di buio nel processo. Si parla tanto del ragionevole dubbio che stabilisce la necessità di un alto grado di probabilità di colpevolezza dell’imputato, non ritenendo sufficiente un minimo dubbio di colpevolezza per poter arrivare ad una sentenza di condanna. Eppure c’è stata. Inoltre ho compreso quanto le intercettazioni possano essere fuorvianti e, se decontestualizzate, possano essere l’elemento di ancoraggio ad una sentenza di condanna ingiusta. Resta l’ultimo grado di giudizio che, mi auguro, possa restituire una madre al suo piccolo figlio».Cosa si augura ora per il futuro«Vivrò con passione ed umanità il mio lavoro che è capace di emozionarmi, rendermi libera e viva. Mi auguro, e sono certa che così sarà, di migliorare costantemente attraverso lo studio per raggiungere le, tanto auspicate, vette altissime dalle quali non dimenticherò mai chi sono e da dove sono partita». er.no