Di Olga Chieffi
“E ‘ncuntràmmoce e dàmmoce ‘a mano/si stammo vicine putimmo parlà/e parlanno parlanno parlanno/quante ccòse se pònno accuncià…” E’ questa una delle canzoni di Scugnizzi, che ci è balenata innanzi durante la rappresentazione della prima di “Un ponte per due”, che ha visto sul palcoscenico del Teatro delle Arti di Salerno, Paolo Caiazzo e Antonello Costa, in una pièce dedicata a temi importanti, attualissimi, quale il suicidio, l’emigrazione, l’incomunicabilità, la depressione. Un testo scritto a quattro mani dai due attori, per la regia dello stesso Paolo Caiazzo e la produzione di Teatro Novanta i quali hanno avuto accanto due giovanissimi, Giulia De Angelis e Mirko Ciccariello. “L’incomunicabilità è la più terribile delle solitudini”, un aforisma che sta nella seconda parte del “Così parlò Zarathustra”, di Friedrich Nietzsche, nel capitolo intitolato “L’ora cheta” ed è proprio questo il messaggio che ha lanciato la compagnia dal Tower Bridge di Londra. Temi, questi, affrontati e sviluppati anche nell’incontro, che gli studenti del liceo Francesco Severi di Salerno hanno avuto prima dello spettacolo con gli artisti, un “prima della prima” ricco di spunti dagli inizi della carriera al riconoscimento del puro talento comico di Antonello Costa da parte dei suoi maestri, il trovarsi in quel momento al tempo giusto, come Alessandro Caiazza e l’inattesa conoscenza, la fiducia nella vita che si è intrapresa che la statuetta vinta al premio Charlot ha fatto crescere in Paolo Caiazzo. La trama è semplice, potrebbe far pensare al celebre film La vita è meravigliosa a tanti testi e commedie ove il leitmotiv della melancolia, di quella bile nera, individuata da Ippocrate è risolta col dialogo, col ritrovarsi e ri-vivere, “pathire” un’emozione, che è anche l’essenza stessa del teatro, del suo essere catartico e dell’arte tutta. Una notte londinese, un momento di crisi e un incontro che cambia tutto: questa è la storia di Antonello e Paolo, due emigranti italiani con il cuore pesante e le anime in tumulto, che si trovano sul Tower Bridge, pronti a lasciarsi tutto alle spalle, con un grande salto. Antonello, siciliano di origini, rigorosamente in frac, in omaggio a suo padre e alla sua canzone di Domenico Modugno preferita, da dieci anni gestisce una rosticceria di arancini, ma il vizio del gioco lo ha portato sull’orlo del baratro, minacciato dagli strozzini londinesi. La disperazione lo spinge a pensare che l’unica via d’uscita sia il gesto estremo, per salvare la sua famiglia dai debiti e dal dolore, lasciandosi andare cantando “Sul fiume silenzioso /E nella luce bianca/Galleggiando se ne van/Un cilindro/Un fiore e un frac”. Paolo, invece, napoletano, anche lui affronta crisi economiche e sentimentali, sentendosi ormai senza speranza. È in questa occasione che i due, in un gesto di solidarietà e di bisogno di ascolto, decidono di aprirsi l’uno con l’altro, condividendo le proprie storie di fallimenti e desideri nascosti. La conversazione si trasforma in un racconto esilarante e doloroso allo stesso tempo, dove il termine suicidio o morte non appare mai, un dialogo intriso di battute e situazioni brillanti e divertenti, che li aiuta a vedere le cose sotto una nuova luce. L’arrivo di due poliziotti li fa desistere temporaneamente, ma la loro voglia di trovare un senso alla vita non si placa. Decidono di tuffarsi insieme, ma con calma, approfittando di quell’ultimo momento di libertà. Tra confessioni sincere e risate amare, il passare del tempo viene scandito dal rintocco del Big Ben, mentre la fame e il desiderio di vivere si fanno sentire: chiamano un rider per una cena consolatoria e attivare la congestione per non soffrire nel momento fatale, e anche perché vale la pena morire a stomaco pieno. Il loro tentativo di fuga dalla sofferenza viene interrotto da una serie di personaggi insoliti, tutti stranamente simili tra loro, che intervengono con improvvisi colpi di scena: irruzioni, figure misteriose, il rider licenziato e infine, un’influencer decisa a riprendere il suicidio per ottenere visualizzazioni. Ma in questo caos surreale, Antonello e Paolo, che poi si rivela essere la coscienza stessa di Antonello, oppure un angelo, come il Clarence de’ la Vita è meravigliosa, trovano una nuova ragione per resistere, scoprendo che, forse, anche nelle peggiori sfortune, ci sono spazi di umanità e speranza, come il ricordo del profumo del ragù tra Napoli e Ragusa, o l’idea di preparare una parmigiana, che possono aprire una via, anche sinestetica verso un nuovo inizio. Grande ritmo quello dei quattro protagonisti che rende conto ad un luminoso passato, sono figli del nostro grande teatro, essendo noto che un figlio di Napoli non nasce, ma debutta, lanciando dal palcoscenico un messaggio con il quale desideriamo ricordare un grande filosofo partenopeo che è Aldo Masullo, il quale, in uno dei diversi incontri salernitani, ospite della Società Filosofica Italiana, ebbe a dire che la prima grande virtù dell’uomo è la verità (secondo alcuni filologi deriva dalla radice iranica ver che significa fiducia realtà). Se noi riusciamo ad agire in modo da suscitare la fiducia degli altri, e al tempo stesso ad avere fiducia negli altri, come il pescivendolo che a Napoli afferma che la vongola è verace, ovvero che rappresenta la vera e onesta vongola e lo fa dire a lei stessa, forse potremo risollevarci dalla nostra condizione che sta cedendo al Nulla. L’ invito è a rompere il guscio d’isolamento, che non è materiale ma una volontaria reclusione dell’io. La passione non è la cecità di lasciarsi prendere da un’urgenza, ma pathire, cioè vivere profondamente e dare spessore alla storia, ponendo un freno al frenetico correre, in modo da fermarci a riflettere su noi stessi, poichè l’uomo è libero e vive in quanto trascende con il proprio pensiero la stessa vita immediatamente vissuta, ovvero, quando pensa la Vita.





