
Gemma Criscuoli
Chi è stato bambino negli anni Ottanta lo ricorderà con affetto. L’uomo tigre aveva tutte le caratteristiche di una serie di successo: un contesto ostile, un’etica da difendere, la violenza che esercita da sempre un fascino ambiguo. Non ci si aspetta, dunque, di vedere associata quell’immagine a una fragilità spiazzante sulle orme del santo di Pietralcina, ma è il mondo di oggi a capovolgere tutto senza fare prigionieri. Nuova tappa di Mutaverso, il progetto artistico diretto da Vincenzo Albano, “Tiger dad” ha conquistato il pubblico del Piccolo Teatro del Giullare grazie alla performance di Salvatore Nocera, interprete energico e ammaliante, che offre tutte le proprie energie alla drammaturgia e regia di Rosario Palazzolo. Come già accade in Letizia for ever, la verità (o quel che le somiglia) emerge gradualmente da una costante tensione narrativa. All’inizio dello spettacolo, un uomo con mani e ginocchia legate, nei confini illuminati di un ring, indossa la maschera dell’uomo tigre, sotto la quale si nota una barba con fiocchetti colorati, mentre risuona ossessivamente la colonna sonora del noto cartone animato. Si libera dai lacci man mano che offre informazioni su di sé, allude spesso a un contratto che, tra l’altro, gli impone di non varcare i confini del luogo in cui si trova prima di un dato tempo e di incutere una paura che deve sembrare vera, anche se tutti ne conoscono la finzione. Vale la pena darsi in pasto agli sguardi altrui, però, perché, liberandosi a fatica della maschera, potrà finalmente mostrarsi per quello che è: lo chiamano Tiger dad, ma lui è Cabriello, anima semplice che si esprime in una lingua sgrammaticata, a cui è stato diagnosticato un disagio mentale lieve, che gli è costato nell’infanzia disprezzo continuo e improvvide supposte per placare la sua esuberanza. Diviene chiaro, quindi, che il protagonista è di fatto ostaggio di un’arena virtuale che ha già stabilito una vera e propria scaletta a cui attenersi, destinata a culminare con la sua morte. Tutto quello che ha condotto l’uomo a diventare ciò che è, le sue reali motivazioni, le sue ossessioni contano solo in base alla priorità dei social. L’accusa a questo ambito non potrebbe essere più netta, come ha dichiarato il regista nell’incontro con il pubblico condotto da Michele Di Donato: “Siamo consumatori trattati come topi in laboratorio, la nostra anima è stata mangiata da queste iper-rappresentazioni di noi stessi”. In un paradossale ossimoro, Cabriello è il giocattolo di artefici e fruitori della dimensione on-line, ma anche l’elemento di disturbo, la presenza ingombrante di cui sbarazzarsi volentieri, dato che nessuno vuole avere a che fare con “uno scemo”, anche se lieve. Le sue parole, tuttavia, sanno cogliere aspetti scomodi: ne è un esempio la frase “La gente, quando diventa la gente, della verità ci interessa la letteratura”, come a dire che risulta vero soltanto ciò che soddisfa comode attese. Le trappole del desiderio, però, non possono rimanere sotto silenzio e Tiger dad, nel raccontare la sua infanzia complicata tra un canto perenne e genitori troppo afflitti e lontani per abituarlo alle durezze della vita, si nutre di un immaginario infantile : la musica di Candy Candy enfatizza la sua predilezione per Uanda, la compagna di scuola prediletta che lo sopporta cantare solo perché, scoprirà poi, è sordomuta, le note di Ufo Robot scandiscono la sua partecipazione (solo sognata) allo Zecchino d’oro, il tema musicale di “Rocky” è associato alla vittoria a Sanremo. Privo di ogni bussola, Cabriello crede che “La solitudine” gli sia stata rubata da Laura Pausini e dinanzi all’ingiusta vittoria della cantante, lo shock lo muta in Padre Pio, di cui abbraccia con cura le regole: patire, farsi schiacciare, essere perseguitato dal dolore. Essendo, infatti, il sistema in sé una prigionia che toglie il respiro, la religione, nel suo culto della mortificazione, non può che agire con la stessa protervia. Non è un caso che la successiva metamorfosi nell’Uomo Tigre tra aggressioni e omicidi avvenga nell’esatto momento in cui, al concerto della Pausini, l’emulo del santo abbia scelto di perdonarla, donandole la canzone. Non c’è modo migliore, in effetti, di generare un assassino del far violenza alla sua anima e il popolo “dell’internetto” decide la pena capitale: che possano esistere solo il sì o il no, ma mai il forse, è, inoltre, segno che la schiavitù dello schermo disprezza il dubbio. Ma ecco il doppio colpo di scena: Cabriello si è finto idiota per programmare la strage e cantare, in diretta su tutti i dispositivi, il suo odio per una civiltà vuota, superficiale, mortifera, ma il virtuale è subdolamente pervasivo e compare il video in cui due creature dell’intelligenza artificiale, una ragazza e l’uomo tigre, si esibiscono proprio nella canzone del giustiziere, deciso, a quel punto, a farla finita. Ogni cosa è banalizzata e ridotta a merce nell’universo visuale: la sconfitta di Cabriello è la nostra. Senza accorgercene, abbiano offerto la scure al boia.