Salerno, l'omaggio al maestro Pasquale Avallone - Le Cronache Attualità
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Salerno, l’omaggio al maestro Pasquale Avallone

Salerno, l’omaggio al maestro Pasquale Avallone

A 60 anni dalla morte di Pasquale Avallone Nel 60° anniversario della morte del grande pittore salernitano Pasquale Avallone, è in preparazione una mostra di 60 dipinti inediti del Maestro. La rassegna viene curata da Matilde Romito, ex direttrice dei musei provinciali di Salerno, dal nostro editorialista Michelangelo Russo (che da sempre si batte per la valorizzazione del patrimonio culturale di Salerno) e da Emma Magaldi. Che è la madre di Letizia Magaldi, manager di livello internazionale e Vice Presidente della Fondazione Donnaregina di Napoli, curatrice del Museo Madre di Napoli. Segno dell’interesse crescente del mondo imprenditoriale per i tesori d’arte del territorio, non sempre valorizzati dalla politica. La rassegna prevede anche la realizzazione di un piccolo catalogo commemorativo. Al catalogo sta collaborando anche il giovane Alessandro Basso, studioso di arte del territorio e promessa della critica artistica”. Al momento, non è ancora noto il sito di esposizione dei quadri, sinora non pubblicati. L’auspicio degli organizzatori è che la mostra sia di sprone per l’intitolazione di una strada a uno dei massimi artisti salernitani, autore, tra l’altro, del fregio commemorativo della storia di Salerno lungo ben 125 metri, sito nel Salone dei Marmi del Palazzo di Città. Presentiamo in anteprima il commento redatto da Michelangelo Russo, che apparirà nel catalogo in preparazione.

Pasquale Avallone è stato per molti anni presente nella vita della mia famiglia, almeno fino al 1961. Non lui direttamente, o un suo quadro. Ma, ricollegabile a lui, un ritratto di mio nonno, disegnato da mio padre quando aveva 18 anni. E’ stato questo il modo di conoscere il volto di mio nonno, morto poco prima che nascessi. Perché allora Pasquale Avallone? Mio nonno, appassionato dell’opera, e quindi del Teatro Verdi, aveva voluto che uno dei suoi figli frequentasse i corsi di pittura che, proprio in uno studio del Teatro Verdi, teneva il Maestro Pasquale Avallone. Mio padre fu il prescelto tra i figli, ma dopo qualche mese comunicò a mio nonno che il corso di pittura non gli interessava più. Il motivo stava nel fatto che il Maestro imponeva per mesi ai suoi allievi soltanto il noioso disegno del vero, rinviando a un futuro indeterminato l’uso dei pennelli. Per consolare mio nonno, mio padre gli diede un esempio delle capacità artistiche già raggiunte, facendogli il ritratto. A matita, certo, ma così vivido e intenso da poter sostituire un quadro ad olio. E mio nonno si piegò. In fondo, avere in casa un surrogato di un vero quadro di Avallone era meglio che niente. Negli anni Trenta del secolo scorso possedere l’opera di un Maestro cittadino era nelle ambizioni di ogni famiglia salernitana. Pasquale Avallone, già all’apice della fama, contendeva il premierato con Clemente Tafuri. Ma Tafuri, più costoso già a quel tempo, aveva una clientela più particolare, soprattutto nella borghesia facoltosa. Molto influivano sul gradimento i soggetti delle sue tele, indubbiamente più carnali, e suggestivi, di emozioni sensoriali. Pasquale Avallone, anche nei suoi nudi (mai audaci) indirizzava invece le amozioni ad un livello più alto di spiritualità. La malinconia, non rassegnata ma serena, come inevitabile condizione di sottofondo dell’esperienza umana, colorava di tutte le sfumature del grigio paesaggi come persone. Un velo di mestizia latente, non legata a singoli episodi di vita, ma profondamente, quasi religiosamente levato a monito sulla fuggevolezza del tempo, è stato lo spettro cromatico su cui leggere l’arte di Pasquale Avallone. L’artista, apprezzato ottocentista sulle orme del padre, fino agli anni Venti, ha raggiunto nella maturità della sua arte l’evoluzione completa di una pittura inconfondibile ed unica. Qualsiasi cittadino di Salerno, che abbia memoria di studi, anche approssimativi, dei nostri Maestri di pittura, sa riconoscere Pasquale Avallone a prima vista. Si può dire che, nel suo impianto cromatico che è il meno appariscente che ci sia nel pur folto gruppo di pittori salernitani e costaioli, Avallone è l’unico che si sia rivolto, dagli anni Trenta, a una ricerca del colore del tempo, in senso stretto. Nulla a che vedere con la ricerca dei futuristi sull’aspetto evolutivo del tempo da riportare sulla tela. Il tempo da tradurre in colore, con la contemporaneità delle visioni dei futuristi tra l’attimo passato e quello futuro, è stata una esperienza artistica che negli anni Trenta era già superata; ma che comunque non è mai interessata ad Avallone. Che pure ha assorbito, in qualche modo, la lezione del ritorno alla figura e all’icona fissa, monumentale, della corrente di Novecento. Il Maestro, invece, ha rivolto il suo interesse alla ricerca di un colore esclusivo che ritraesse la correlazione tra il tempo vissuto e lo sconcerto dell’anima quando ha la consapevolezza della fuga all’indietro degli attimi irrecuperabili. Avallone è riuscito a riportare nei suoi quadri un colore non rintracciabile sulla tavolozza: il colore della nostalgia. Che è un sentimento struggente, affidato alle parole del rimpianto. Ma intraducibile per gli artisti se non nelle rappresentazioni commemorative, ma storiche, di eventi e persone. Ma quale è il colore della nostalgia quando, con i paesaggi e le persone ritratti nell’attimo vissuto del riporto delle immagini sulla tela, l’artista vuol colorare di nostalgia un’immagine reale che è presente, e non lontana nel ricordo? Avallone lo ha trovato nella gamma dei toni sfumati e delle slabbrature indefinite nei contorni di paesaggi e persone. Tutto l’impianto compositivo delle opere migliori ci racconta un mondo già proiettato all’indietro mentre è presente all’occhio del pittore. I bellissimi quadri delle bagnanti non definiscono i contorni della modella, nuda con verecondia, ma chiaramente splendida. E’ bella in quel momento del ritratto dal vivo, sotto un ombrellone che non squilla di colori vividi sotto il maestrale. Ma è un attimo, esaltante ma già lontano nel tempo; relegato, mentre è vissuto, anche inevitabilmente, alla nostalgia della memoria. Che è la parente stretta dei sogni, che raramente hanno colori vividi. I sogni appartengono al mondo della notte, dove regna il grigio perla della luce lunare. Ecco perché in un grigio perla soffuso appaiono anche le composizioni più grandi dei paesaggi della costiera, amati dal pittore. La più volte replicata vecchia costiera, con lo scorcio di mare e roccia che va verso Vietri, è un mezzogiorno che, nei grigi, rimanda alla notte. E’ una versione onirica di un paesaggio di incanto, osservato con occhio mnemonico e non fotografico. Si intuisce che è mezzogiorno, il momento più bello, ma il velo dei grigi trasforma la visione nella percezione di un attimo irrimediabilmente in fuga nel passato. Questa dinamica interpretativa dell’arte di Pasquale Avallone forse non è stata ancora rivelata del tutto dalla copiosa letteratura critica sulla sua opera. Eppure, a ben vedere, ne è intrisa la sua più famosa creazione: il fregio commemorativo del Salone dei Marmi del Palazzo di Città di Salerno. Sarebbe un errore catalogare il capolavoro massimo del Maestro nell’ambito della pittura meramente celebrativa. E quindi restringere nella cornice delle opere meramente storicistiche lo sforzo di illustrare nel grande affresco la grandezza del passato di una città. Pasquale Avallone ha consegnato la storia della Città non alla memoria dei momenti di gloria, ma direttamente alla nostalgia dell’irripetibilità e fugacità degli attimi della bellezza. Un mondo giovane, vigoroso, progettuale anima tutto il racconto. Non c’è l’enfasi propagandistica, che pure era sperata dalla committenza quando il lavoro fu affidato, nel periodo fascista ancora in auge. Avallone non si chinò mai alla sirena politica della committenza pubblica; il suo più famoso collega, il cromaticissimo Clemente Tafuri, non sfuggì invece al richiamo propagandistico di quella sirena. Avallone racconta Salerno immersa nella luce di un sogno. Senza tempo né padroni, né vinti né schiavi. E’ il sogno di una città provinciale eppure superba, consapevole della sua bellezza nei luoghi e nella storia. Il grigio e il bianco gessoso dominanti creano l’atmosfera neutra di un tempo senza ore. Alla maniera dei simbolisti di fine Ottocento. Alla maniera del sogno dei Pastori di Puvis de Chavannes, che sessanta anni prima di Avallone aveva intuito il colore vero della nostalgia legato indissolubilmente al rimpianto diurno dello scintillio acromatico dei sogni della notte.