
di Raffaella D’Andrea
Tornare alla propria terra non è sempre una questione di nostalgia o di semplice attaccamento alle origini. Per alcuni, è una scelta consapevole, un atto di volontà che nasce dalla visione di un futuro costruito su radici solide. Pietro D’Elia ha deciso di ritornare, non perché non potesse stare lontano, ma perché ha visto nella sua terra un potenziale da valorizzare, una storia da continuare a scrivere con il proprio lavoro e la propria passione. In questa intervista ci racconta il suo percorso, le difficoltà e le soddisfazioni di chi sceglie di investire in ciò che ama, senza rimpianti.
Pietro, il tuo nome ultimamente ricorre spesso sui social e nelle rassegne stampa nazionali. Hai scelto di tornare nel tuo paese non solo per un attaccamento sentimentale, ma per un progetto ben definito. Puoi raccontarci meglio questa scelta?
«Certo. Sono nato a Teggiano, ma ho vissuto e studiato lontano. Ho frequentato la Luiss e la Bocconi, laureandomi in Economia, e ho lavorato per diversi anni in una multinazionale molto importante, occupandomi di promozione commerciale. Il mio percorso mi ha portato a diventare uno dei loro commerciali di punta, ma sentivo il desiderio di costruire qualcosa di mio, qualcosa che fosse radicato nel territorio ma con un approccio imprenditoriale moderno».
Quindi il tuo ritorno non è stato solo una scelta di cuore, ma un vero e proprio investimento imprenditoriale?
«Esattamente. Volevo dimostrare che era possibile partire da un prodotto locale antico e trasformarlo in un’opportunità di business contemporanea. Il mio obiettivo non era semplicemente “tornare a casa”, ma creare un modello di impresa agricola capace di coniugare tradizione e innovazione, evitando i soliti stereotipi legati al sud e alla fuga di cervelli. Anzi, volevo ribaltare questo concetto, dimostrare che si può invertire un ciclo migratorio e generare sviluppo in un piccolo borgo».
Come hai strutturato il tuo progetto?
«Ho puntato sulla creazione di una rete di coltivatori locali, che producono il peperone crusco seguendo metodi tradizionali, ma con il supporto di un’azienda in grado di valorizzarlo sui mercati nazionali e internazionali. L’idea non era semplicemente produrre e vendere, ma tradurre il dialetto del territorio in un linguaggio comprensibile a tutti, dall’italiano all’inglese, fino alle esigenze del mercato globale».
Avevi previsto sin dall’inizio il successo di questo prodotto?
«Alcuni aspetti del mercato li avevamo previsti correttamente, ma ci sono stati anche imprevisti. Uno dei principali ostacoli è stata la consapevolezza del prodotto: pensavamo che fosse più facilmente comprensibile ai consumatori, invece abbiamo dovuto lavorare molto sulla comunicazione e sull’educazione del mercato. Inoltre, un altro elemento imprevedibile è stato il Covid, che ha inevitabilmente influenzato la nostra strategia e le tempistiche di crescita».
Qual è, quindi, la tua visione per il futuro?
«Continuare a far crescere il progetto, rafforzando la rete locale di produttori e ampliando la diffusione del peperone crusco sui mercati internazionali. Credo fortemente che valorizzare un prodotto tipico con un approccio imprenditoriale moderno possa essere la chiave per il rilancio di molte realtà rurali italiane. Noi lavoriamo e diamo lavoro: durante tutto l’anno impieghiamo stabilmente sei persone, ma nei periodi di picco arriviamo anche a dieci o dodici. Questo mi dà molta tranquillità, perché oggi siamo una realtà consolidata. Facciamo il nostro lavoro con dedizione e competenza».
Quanto conta la comunicazione nella tua azienda?
«Tantissimo, purché sia fatta in modo corretto. Esiste infatti un forte stereotipo sui giovani che tornano all’agricoltura. A parte il fatto che ho 36 anni e sono tornato a questo mondo dieci anni fa, quindi giovane lo sono fino a un certo punto. In Italia si tende a considerare “giovani” i quarantenni, mentre negli Stati Uniti, ad esempio, un imprenditore a 24-25 anni è già nel pieno della sua carriera. Noi europei abbiamo un altro ritmo, ma il punto è un altro. L’agricoltura è spesso vittima di una visione duale e limitante. Da un lato, c’è l’immagine del piccolo contadino, magari poco istruito ma con una conoscenza innata della terra, il cui prodotto però non ha spazio sul mercato perché ritenuto poco competitivo. Dall’altro, c’è la grande distribuzione, vista come un sistema freddo e impersonale, che impone prezzi bassissimi e svaluta il lavoro agricolo. Eppure, questa visione non si applica ad altri settori, pensiamo al vino o all’olio, che vengono considerati prodotti nobili e legati a produttori di alto livello. Perché non può essere lo stesso per gli ortaggi? La comunicazione è fondamentale proprio per superare questi preconcetti. Noi non siamo semplicemente coltivatori, siamo artigiani dell’agricoltura.
Ogni nostro prodotto nasce da un processo lungo e meticoloso, servono 300 giorni per trasformare un seme in una chips di peperone. Il nostro lavoro è fatto interamente a mano, su lotti di terreno a estensione controllata, e ogni dettaglio viene dichiarato in etichetta. Attraverso la comunicazione, possiamo raccontare il valore del nostro lavoro, spiegare cosa sono le chips, le polveri, le creme, e descrivere i metodi naturali che utilizziamo, come l’essiccazione all’aria. Dobbiamo far sapere quanta cura e quante certificazioni ci sono dietro i nostri prodotti. Solo così possiamo dare il giusto valore a ciò che facciamo e far capire che un ortaggio può essere un prodotto di altissimo pregio».
Chi sono i tuoi clienti?
«I nostri clienti principali sono ristoranti e operatori del settore della ristorazione, comprese le grandi catene alberghiere, per le quali forniamo il servizio di room service. Vendiamo anche online, raggiungendo clienti privati in Italia. Inoltre, esportiamo in diverse parti del mondo, come Emirati Arabi, Stati Uniti e soprattutto nel Nord Europa, ma il lavoro da fare è ancora tanto».
Come sei stato accolto nel settore agricolo locale? Hai trovato resistenze o supporto?
«Vengo da una famiglia lontana dall’agricoltura, mio padre era direttore di banca, mia madre insegnante. Ho creato questa azienda da zero e all’inizio, a livello locale, sono stato accolto con una certa diffidenza.
C’era chi pensava “Cosa può capirne lui, che ha studiato economia, di agricoltura?”. Tuttavia, chi lavora nel settore con un approccio scientifico e di qualità, come Michele Ferrante – che considero un vero scienziato dell’agricoltura – mi ha dato fiducia. Nel Cilento, i produttori di alto livello si riconoscono tra loro e collaborano. Noi non facciamo “rete” in senso generico, ma solo con chi condivide i nostri valori e il nostro approccio. Ad esempio, se Michele non ha spazio per essiccare i suoi peperoncini, li porta da noi. Quando ho bisogno di un confronto sulla trasformazione alimentare, mi rivolgo a Franco Vastola di Maida. È un lavoro di squadra basato sul rispetto e sulla qualità».
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
«Stiamo lavorando a un progetto innovativo di coltivazione in serra fuori suolo, creando un’azienda a ciclo chiuso. Questo sistema ci permetterà di ridurre il consumo di suolo e di recuperare l’acqua utilizzata nel processo di essiccazione. Inoltre, vogliamo sviluppare la propagazione dei semi internamente, senza dipendere da vivai esterni certificati. Un altro obiettivo è il compostaggio degli scarti di lavorazione per produrre fertilizzante naturale. È un progetto su cui lavoriamo dalla fine dello scorso anno e domani avrò una riunione decisiva per valutarne i prossimi passi. Se tutto procede come speriamo, puntiamo a iniziare già entro ottobre».
Cosa ne pensi delle fiere di settore? Vi partecipi?
«Certo, sono tornato da poco dal “Taste Firenze”, una delle fiere del cibo gourmet più importanti del momento, dove, ad esempio, Santomiele, eccellenza dei fichi bianchi, è stata una delle prime aziende del Cilento e del Vallo di Diano a partecipare. Quest’anno l’evento ha ospitato circa mille espositori, ma noi eravamo già presenti nel 2019, quando ancora lavoravamo nel garage di casa. In quell’occasione siamo stati gli unici rappresentanti del Vallo di Diano e tra le sole tre aziende a sud di Salerno. Partecipare a questa edizione è stata un’esperienza straordinaria perché “Taste Firenze” è una vetrina perfetta per realtà come la nostra. Le grandi fiere, come il Tutto Food a Milano o il Cibus di Parma, sono ideali. La nostra strategia è quella di posizionarci in fiere che sappiano valorizzare al meglio il nostro prodotto e il nostro lavoro».Pietro, sei un ottimo comunicatore e nei tuoi video trasmetti con passione tutto il lavoro che c’è dietro ogni prodotto. Ti vedremo anche nei prossimi eventi del settore qui in Campania?«Se ci saranno occasioni interessanti, parteciperò con piacere. Ogni riconoscimento e ogni opportunità di raccontare la nostra realtà sono per noi un grande onore. Anche sul territorio è importante farsi conoscere, perché – come si dice – nessuno è profeta in patria. Parlare di quello che facciamo e far conoscere la nostra storia è fondamentale per far comprendere il valore della nostra filosofia produttiva».