Esilio e Luci della Città per Stefano Cucchi hanno illuminato lo scorso weekend teatrale salernitano
Di OLGA CHIEFFI
Un quadrato, al centro del palcoscenico del Centro Sociale di Salerno, l’impressione di una zattera in un mare oscuro, un uomo, è stato licenziato di punto in bianco, la sua sospesa ingannevole lucidità galleggia su di un oceano opaco cui lui vede paurosamente limpidi i mostri della profondità. E’ Esilio, ospitato lo scorso weekend dal cartellone di Erre Teatro, Mutaverso, allestito da Vincenzo Albano, giunto alla sua seconda stagione. In scena La Piccola Compagnia Dammacco con Mariano Dammacco e la protagonista Serena Balivo, nei panni del nostro Monsù Travet. Lo spettacolo è un viaggio mentale. Il protagonista cerca risposte per capire ed interpretare la realtà attraverso ricerche ossessive, interrogandosi e interrogando, sulla zattera che è anche scacchiera, un’atmosfera non lontana dal Settimo Sigillo di bergmaniana memoria. Il fallimento esistenziale, in seguito al licenziamento, smuove sentimenti nichilisti ed iconoclasti. Le riflessioni, le ricerche di un nuovo lavoro, sono gli elementi fondanti del suo microcosmo interiore, sino all’ “abbonarsi” ad una agenzia interinale che gli proporrà il lavori più strambi. Entrare nella testa dell’ “uomo senza nome” è “il viaggio”. Visibile: sono le azioni quotidiane che compie il personaggio, (un cappotto con due gambe e due occhi enormi, tra Charlot e un antieroe alla Gogol) “invisibile”: è tutto ciò che il protagonista prova nelle varie ricerche, ed è affidato all’anima, un’anima in pena, impersonata da un Mariano Dammacco in nero, che potrebbe far pensare anche alla morte e che il protagonista possa essere finito anche male. L’uomo qualunque sta lentamente subendo un esilio, i colleghi lo dimenticano, gli amici lo evitano e anche la sua anima se ne va, si affollano, nella casa-vita del protagonista, le personificazioni di tutti i vissuti del disoccupato: una ridda di emozioni allegorizzate che accompagnano o scuotono l’Uomo, generando episodi tra divertimento e pena, fino al non ritorno della Disperazione, del complotto internazionale in cui siamo tutti burattini, trattenuti da fili invisibili. Contrasti tra la recitazione dell’anima in pena, ibrida, monocroma di Mariano Dammacco e le mille sfaccettature vocali e fisiche dell’Uomo qualunque, teatro di parola, teatro di figura, teatro civile, coinvolgimento del pubblico, sino all’ultima battuta “Io sto bene e tu?”. Alla sala Pasolini, per la stagione della casa del contemporaneo, Francesca De Nicolais ha costruito il suo ring per raccontare il dramma di esilio e morte di Stefano Cucchi, aspirante peso piuma. Il pugilato è poesia. La boxe è lo spettacolo non determinato dalla parola, che se ne frega di ciò che fonda gli altri linguaggi d’arte, del logos dell’autorialità. Ha tutte le discipline dentro il teatro, la musica, la letteratura, la performance, rappresentazione, gioco, evocazione nel migliore dei casi. Anche il pugilato è tutto ciò ma ha in sé e in più qualcosa di fondamentale: la realtà con i suoi spasimi, le sue agonie, il suo sangue, la sua imprevedibilità, il suo sfuggire ad un disegno prestabilito. In questo modo comincia la piéce, creata da Pino Carbone, a partire dalle testimonianze e dai sonori dei telegiornali, fusi in un percorso fatto di salti, flash, cambi del punto di vista narrativo. Stefano è morto di dolore, un dolore fisico che ha annientato la mente e, soprattutto, la dignità. Ciò che le voci sembrano dirci è che ci siamo dimenticati di Stefano Cucchi come uomo. Un uomo fatto anche di sbagli pagati con la vita. Poche di queste storie sono diventate “dramma pubblico”. Stavolta, grazie al coraggio di Francesca De Nicolais che ha vestito la “sciassa” di Charlot, evocando il suo improbabile incontro di boxe in The Champion, la danza dei panini la scarpa consumata a cena in The Gold Rush, la storia di Stefano Cucchi ha avuto un microfono, una colonna sonora, una drammaturgia riproducibile. Lo spettacolo è stato costruito attraverso una “polifonia” di voci. I testimoni che hanno incontrato Stefano, e, poi, Stefano che parla, che si espone in prima persona, il tutto contraddistinto da una recitazione generosissima, accompagnata dalla fatica e dal sudore “vero” dell’ attrice in scena, ha fatto nascere come per magia un fiore dal copione, la speranza, e l’applauso commosso del pubblico.