
Vito Pinto
Da qualche giorno il piccolo borgo di Bosco, nel Cilento intimo, ha aperto i battenti del Secondo Museo Ortega, definito dal Sindaco Ferdinando Palazzo “un inno pittorico alla Libertà”. Un Museo che si è inaugurato nel 35° anniversario della morte del maestro José Garcia Ortega, con un investimento di fondi comunali e la partecipazione del GAL locale, recuperando un immobile già esistente. Nel borgo pochi abitanti, custodi della memoria collettiva di un passato di dolori e distruzioni, ma anche di speranze e voglia di esistere: per tre volte è risorto dalle sue ceneri. Un agglomerato di case, così strette tra loro che dalle pendici alte del Bulgheria si scorgono solo i rossi embrici: le stradine antiche, intime, restano nascoste all’affaccio sull’ampio e sereno golfo di Policastro. Un edificio riqualificato per il Museo nei cui spazi sono state raccolte 100 opere delle 217 del Maestro Ortega di proprietà del Comune di San Giovanni a Piro, di cui Bosco è frazione, con i cicli Dürer, Segatores e Decalogo. Secondo Museo perché il primo è quella casa che il Pintor abitò negli ultimi anni del lungo esilio dalla sua Spagna. Ma del nuovo Museo la cronaca ha dato ampio resoconto. Ben poco si è parlato di José Garcia Ortega, definito da Gabriel Celaya “pintor de la tierra y de los ombres de la tierra”, che nel borgo cilentano trovò una casa con giardino, ma ritrovò anche casa sua, quella che ognuno si porta dentro per tutta la vita. «Sto bene con voi – diceva Ortega – perché qui ho trovato un’angoscia ed una miseria che sono quelle della mia gente. Perché i colori sono quelli della mia terra. Sono rimasto perché la pelle dei braccianti è scura e secca, come quella dei contadini spagnoli». Tante le affinità morali e ambientali! tante le fierezze ed intime complicità tra due popoli così distanti, ma anche così simili per quella “terra” da difendere a tutti i costi e così cara ai nostri contadini come ai “segatores” della Mancha di Ortega! Lui, il “pintor”, ha vissuto con ambedue i popoli contadini, li ha visti raccogliere le olive, potare le viti, resistere alla tentazione dell’abbandono, nel Cilento come nei dintorni di Arrobas de los Montes, in Castiglia, dove ebbe i natali nel 1921. E li racconta, quei contadini, impugnando il pennello, modellando la cartapesta, materia d’un vecchio mestiere artigianale, d’un mestiere semplice, decorandola poi con mano inquieta. Raccoglie nel suo intimo cose che gli altri non possono vedere: scopre, tra i verdi declivi cilentani, il vero senso della lotta degli uomini. “Ecco allora il paesaggio con gli ulivi – annoterà l’accademico Giuseppe Appella – e quello con l’asino e il cardo, il gatto e gli uccelli, la catena e la fame, il dittatore e il poliziotto, il condannato, la donna che implora, il bambino solo, il contadino ucciso e il compagno morto e l’amore tra i mandorli”. La storia scorre immutata e pur sempre nuova nella immemore quotidianità umana e nella riflessione dello studioso! Diceva Ortega: «Ci sono momenti nella vita dei popoli in cui gli artisti sentono che un’arte a contenuto rivoluzionario è una necessità». Quanta verità sofferta, conservata come patrimonio dell’Uomo! «Lavorare in questa terra – scriveva – significa osservare e imparare costantemente, per portare poi con noi qualcosa di veramente puro e genuino che valga la pena di aver assimilato». E sono le tele, le piastre di cartapesta dove campiscono contadini sfiniti, piegati, spezzati, screpolati dalla fatica e dall’attesa di improbabili futuri. Sono frammenti di vita, di uomini e donne e bambini, che mangiano e bevono terra. Da tempo, nella sua arte, Ortega aveva abbandonato le vie della bellezza convenzionale, del mito, della rievocazione o celebrazione storica. Lo stesso grande pannello realizzato per Bosco con 196 riggiole ceramiche, decorate con le scene di distruzione del paese del 1828, non hanno nulla di celebrativo, perché la storia è “contenuto” dell’opera. Su di esso si legge: “Historia dipinta di Bosco Capoluogo per tre volte incendiata e distrutta dai borbonici che invano tentarono di distruggere con le case e le strade anche l’amore per la libertà 1828, perché per tre volte Bosco risorse più fiera e più bella e nel verde di fronte al mare pronta a battersi per la libertà”. Una memoria storica posta all’ingresso del paese, di fronte alla fonte del Savuco che offre le fresche e pure acque del Monte Bulgheria. Amico di Picasso, esiliato dalla Spagna franchista dell’epoca, Ortega giunse a Bosco nel 1980, dopo un soggiorno a Matera, terra di civiltà dei “Sassi”. Nel giardino della casa cilentana, il suo pensiero d’arte si sospende tra realismo, socialismo umanitario e spirito evangelico. Qui, dall’ulivo contorto, nasce il Cristo disegnato; qui, per Ortega, Dio è nel contadino dalle mani callose, nelle madri dolorose che stringono i figli al petto, negli uomini morti per la libertà: Ortega dipinge ciò che vede con gli occhi dell’anima. Ricordando gli anni vissuti in Spagna a ridosso del secondo conflitto mondiale, diceva: «Io sono marcato dal lutto di una tragedia profonda, una lotta terribile, una guerra civile tra noi spagnoli» E ritornano alla mente i versi di “Quest’uomo” che il poeta e scrittore napoletano di nascita Velso Mucci a lui dedicò: “Conoscete quest’uomo / è una domanda che mozza / il fiato delle galassie /e qui scatta a ripetersi / come un segmento / di monotone dinastie terrestri / in cui l’insipienza dei gesti / è il solo universo / cocciuto di qualsiasi gendarme abbia ordine / e maschera /d’intersecare una traccia”. José Ortega morì a Parigi 35 anni fa, la vigilia di Natale del 1990. A Bosco resta la sua casa-museo con i quadri alle pareti in ordinata sequenza, le cartepeste, le cornici in attesa di una tela che mai giungerà; sui ripiani delle credenze sono le ceramiche, in zafra, come le azulejos: momenti di una vita intensa, custoditi come ansia di libertà. Inaugurando il nuovo Museo, il sindaco Palazzo ha ricordato che quel luogo è stato riqualificato a immagine e somiglianza di Ortega: “se vi girate intorno, tutto vi parlerà di lui.” Risuona nella memoria la voce del pintor, con quell’accento castigliano di esotica bellezza: «Sulle pareti di questa casa come sulla calce di tutti i muri, i colori e le linee parleranno contro il tiranno ed i suoi delitti».