di Giovanni Perna
Io non so dove questo ponte vada a finire. Ma so benissimo altre cose: so da dove parte, che traccia una linea obliqua, e che non so fi- schiare. Ma, per fortuna, “Colonel Bogey March”, la marcia del film Il ponte sul fiume Kwai, la canta- vamo. “Ricchetti, lalalalalala.” Un suono che taglia il tempo come un coltello nella nebbia. Arriva da lontano, si arrampica sulle gradinate dell’Arechi, at- traversa i decenni e si ferma in gola, oggi, che non c’è più. Mi ricordo che la cantavamo col sorriso, lieti e grati per tanta bellezza calcistica. Un omaggio affettuoso a un uomo che, in campo, aveva la stessa leggerezza di quel mo- tivo: Carlo Ricchetti. Lo chiamavano “il Re del Ta- glio”, e non solo per il suo modo di muoversi. Era un titolo nobile, guada- gnato con l’intelligenza. Ricchetti sapeva dove sarebbe finito il pallone due secondi prima degli altri, tagliava alle spalle dei difensori come chi conosce la geometria segreta del gioco. Non servivano gesti plateali, né proclami: bastava una corsa, un movimento giusto, uno scatto in diagonale che apriva lo spazio e accendeva il boato. Qualche anno prima, Franco Battiato, cantando “Gli uccelli”, parlava di “traiettorie imper- cettibili, codici di geometria esistenziale.” Parole che vestono bene quel che Carlo mostrava sul terreno di gioco, e allora oggi che è vo- lato via penso si sia trasfor- mato in un uccello, di quelli nobili e maestosi. Il suo era calcio pensato e vis- suto, come un’arte discreta. Arrivato a Salerno nel 1993, Ricchetti ha dato alla causa granata centoquaranta par- tite, venticinque gol, due pro- mozioni, un crociato. Fu protagonista del salto in Serie B nel ’94 e, quattro anni dopo, della storica cavalcata in Serie A con Delio Rossi in pan- china. Più di tutto, Ricchetti ha dato alla causa granata tutto quel che abbiamo sempre chiesto a un calciatore: l’anima. Il suo modo di giocare parlava di lui. Fatto di tagli e ritorni, di fatica e misura, di generosità senza cla- more, di gusto del sacrificio, di vo- glia di non mollare mai, di capacità di trovare bellezza anche nel fango di novembre. E i tifosi, che certe cose le sentono prima di capirle, lo avevano ca- pito da subito. “Ricchetti, lalalalalala.” Una canzone d’amore, bella quanto semplice, per un ragazzo mai sopra le righe. Oggi che Carlo se n’è andato, quella canzone risuona più forte. La senti nei ricordi, nei video sgranati degli anni Novanta, nei racconti di chi era lì. Ogni suono è un frammento di vita, ogni eco una carezza. Perché non se ne vanno davvero quelli come lui: restano appesi al suono delle domeniche, alla voce dei bambini che imparano i nomi dei calciatori, al respiro lento della città che non dimentica. E allora lo immagini lì, adesso, su un ponte immaginario. Non quello sul fiume Kwai, ma un ponte sospeso tra due rive: da una parte il passato, dall’altra la me- moria. Cammina leggero, come faceva sulle fasce. Forse sta canticchiando pure lui. “Ricchetti, lalalalalala.” Sotto, scorre il fiume del tempo. Sopra, Salerno lo guarda passare e sussurra piano: “Grazie.” Perché certi calciatori non fini- scono nel tabellino, ma nelle bio- grafie sentimentali di chi li ha amati. E certi uomini, anche dopo aver attraversato il ponte, continuano a camminare dentro di noi. Per questo non so dove finisca quel ponte, ma so benissimo altre cose: lo hai percorso con onore e dignità, e quella diagonale è oggi un fascio di luce.





