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Il Parco Mediterraneo non è utopia

Il Parco Mediterraneo non è utopia

di Gaetano Fierro *

Il Parco del Medierraneo non è una utopia , ma una opportunità per il Mezzogiorno d’Italia. Non è una suggestione poetica né un esercizio di fantasia meridiana, ma una proposta concreta che nasce dall’osservazione di una realtà già esistente. Tra Pollino, Val d’Agri, Vulture e Cilento si estende un mosaico continuo di paesaggi, biodiversità, culture rurali e patrimoni ambientali che non conosce confini amministrativi. Eppure quei confini oggi funzionano come barriere mentali prima ancora che istituzionali. Quattro parchi che operano come repubbliche autonome, ciascuna concentrata sulla propria sopravvivenza gestionale, senza una visione condivisa di sviluppo integrato, perdendo ogni giorno occasioni che sarebbero naturali se solo si avesse il coraggio di immaginare insieme. Un territorio unico.

Riconoscere

l’organicità

Non si tratta di cancellare identità storiche né di livellare differenze, ma di riconoscerle come parti di un sistema più grande. Il Pollino con la maestosità dei pini loricati, la Val d’Agri con i suoi bacini agricoli e le grandi questioni energetiche, il Vulture con i suoli vulcanici e l’acqua che genera vino e orti, il Cilento con la culla della dieta mediterranea e i borghi che respirano mare e montagna: quattro anime che, se unite, darebbero vita alla più vasta area protetta d’Europa, capace di parlare al mondo non come periferia, ma come laboratorio avanzato di equilibrio tra uomo e natura. Vera.
In queste terre esistono boschi estesi e di pregio, pascoli lussureggianti, sorgenti limpide, una flora e una fauna che altrove sopravvivono solo nei documentari. Qui invece sono ancora parte del quotidiano. Le aziende agricole operano come sentinelle silenziose del territorio; presidiano pendii, difendono suoli, tramandano saperi che nessun algoritmo potrà sostituire. Le greggi attraversano i tratturi, le mucche pascolano lente, i cavalli ridisegnano l’orizzonte. È un pezzo di paradiso reale, non folkloristico, dove la natura non è scenografia ma struttura portante dell’economia, della cultura, persino del carattere delle comunità. Un patrimonio che resiste nonostante decenni di marginalità politica e narrazioni rassegnate. Vive. Ancora. Eppure questo patrimonio viene spesso percepito come un vincolo e non come una leva.

Mai più ossequio

alla immobilità

Nella mente di molti amministratori pesa ancora l’idea che tutela significhi immobilità, che protezione sia sinonimo di rinuncia. È l’eredità di un modello di progresso frantumato, che procede per compartimenti stagni, incapace di leggere
la complessità con strumenti moderni. Così i parchi diventano enti che faticano a dialogare, che si guardano da lontano, che rincorrono finanziamenti separati invece di costruire strategie comuni. In questo isolamento si consuma una delle più grandi occasioni mancate del Mezzogiorno: trasformare la sostenibilità da parola di convegno a motore reale di sviluppo. Diffuso. Durevole.
La cultura del Mediterraneo, di cui questi territori sono espressione viva, non è una formula nostalgica da rivista patinata. È un sistema di vita fondato su misura, relazione, stagionalità, sobrietà e qualità. È il cibo che rispetta il tempo della terra, l’abitare che tiene conto del vento e dell’acqua, la socialità che nasce nelle piazze e non nei centri commerciali. Questo modello, oggi studiato e invidiato dalle scuole nutrizionistiche di tutto il mondo, è nato qui senza brevetti né slogan. Farne l’asse di una strategia unitaria significa dare dignità economica a ciò che già possediamo culturalmente.

 

Mettiamo in rete

queste identità

È un investimento sul nostro modo di immaginare il Parco del Mediterraneo significa mettere in rete queste identità, farle dialogare su turismo lento, filiere corte, energie rinnovabili compatibili, ricerca scientifica, educazione ambientale. Significa costruire un sistema capace di attrarre investimenti senza snaturare i luoghi, creare lavoro senza consumare suolo, offrire prospettive ai giovani senza costringerli all’emigrazione permanente. Un progetto simile non è un sogno buonista, ma una risposta razionale a crisi molto concrete: spopolamento, crisi climatica, fragilità economica, solitudine sociale. L’unità dei parchi diventa così uno strumento di resilienza territoriale, non un semplice esercizio cartografico.
Il paesaggio diventa infrastruttura, non cornice. dell’innovazione, della coesione sociale e della competitività sostenibile futura. Non va dimenticato che un parco non è solo natura, ma anche governo di processi complessi: mobilità, servizi, sanità di prossimità, scuole nei borghi, manutenzione dei versanti, prevenzione del dissesto.
Un sistema unitario consentirebbe economie di scala, riduzione degli sprechi, scelte più coraggiose sulla destinazione delle risorse. Oggi invece assistiamo a duplicazioni, frammentazioni, competenze che si rimpallano responsabilità. Il risultato
è che intere aree interne restano senza una regia forte, mentre avanzano spopolamento e invecchiamento. Il Parco del Mediterraneo può diventare quella regia che oggi manca, capace di tenere insieme ambiente, economia e coesione sociale. Serve una scelta politica che guardi oltre la scadenza elettorale e abbia il coraggio di costruire futuro, non solo consenso.
La sfida non è solo istituzionale, ma soprattutto culturale. Mettere insieme quattro parchi significa superare diffidenze, personalismi, piccoli poteri locali che spesso bloccano più delle norme. Significa condividere dati, progettualità, visioni, uscire dalla logica dell’orto recintato. In un tempo in cui le reti sono la forma dell’economia globale, continuare a ragionare per feudi amministrativi è  un anacronismo che il Sud non può più permettersi.

Per una nuova

qualità di vita

Il Parco del Mediterraneo costringerebbe tutti a confrontarsi con metriche più alte: qualità della vita, capacità attrattiva, reputazione internazionale. Non più numero di sagre, ma solidità dei servizi e delle opportunità. Serve una classe dirigente che accetti di misurarsi Il Mezzogiorno non ha bisogno di altre cattedrali nel deserto, ma di infrastrutture leggere e intelligenti: sentieri, reti digitali, presìdi culturali, formazione continua, servizi per chi vive e per chi arriva. Un grande parco unitario consentirebbe una narrazione finalmente coerente del Sud interno, non più solo come terra di emergenze, ma come spazio di sperimentazione avanzata. Il turismo non sarebbe più mordi e fuggi, ma permanenza consapevole. L’agricoltura non sarebbe solo resistenza, ma innovazione radicata.
La ricerca non resterebbe chiusa nelle università, ma scenderebbe nei campi, nei boschi, nelle aziende. Questo è sviluppo sistemico, non assistenzialismo. È un cambio di paradigma che attende. Chi sostiene che il Parco del Mediterraneo sia un’utopia confonde la difficoltà con l’irrealizzabile. Le utopie sono ciò che non ha basi materiali; qui invece le basi sono geografiche, ambientali, produttive e culturali. È già tutto presente, serve solo l’atto politico di metterlo in relazione. Le risorse europee premiano sempre più i progetti integrati; le università cercano laboratori territoriali; i cittadini chiedono qualità dell’aria, del cibo, del tempo. Il Parco del Mediterraneo risponde a tutte queste domande insieme, senza inventare nulla di artificiale. È l’organizzazione razionale di ciò che già esiste in forma sparsa. Serve una visione che trasformi la somma in sistema.

 

Superare ostacoli

di ordine emotivo

Il vero ostacolo non è tecnico, ma emotivo: la paura di perdere micro-poteri, la fatica di pensarsi parte di qualcosa di più grande, l’abitudine a difendere il programma del proprio ente prima del futuro dei propri figli. Ma la storia insegna che i territori sopravvivono quando sanno cooperare, non quando si chiudono. Il Parco del Mediterraneo non chiede di rinunciare a identità, chiede di farle dialogare. Non è un sogno contro qualcuno, ma per qualcuno: le comunità che abitano queste montagne, queste campagne, queste coste interne. È una possibilità concreta di restare, di tornare, di costruire senza distruggere. Se sapremo guardare oltre l’oggi, questa opportunità
potrà trasformarsi nella risposta più seria e duratura allo spopolamento e alla perdita di senso delle nostre aree interne.

*già sindaco di Potenza e vicepresidente della Giunta regionale della Basilicata