di Lucia D’Agostino
Mente e corpo, emozioni e percezioni del proprio corpo nello spazio fisico e sociale, interazione e dialogo tra performer e pubblico attraverso un’influenza reciproca che genera il cambiamento in un continuo divenire. È tutto questo la danza di Claudio Malangone e della sua compagnia di produzione, riconosciuta formalmente a partire dal 2000, “BordeLine Danza”, anche spazio di formazione e residenza artistica di giovani ballerini. Domenica scorsa alla Sala Pasolini di Salerno si è chiusa la rassegna “Quelli che la danza” Edizione 2022 e a far calare il sipario su un ricco e sorprendente programma intorno ai linguaggi della danza contemporanea sono state proprio tre performance, “Skin, “A place with no name” e “Thread”, tutte accomunate dalla ricerca che Malangone, salernitano di origine, coreografo, e psichiatra, applica all’arte coreutica: approccio dialogico tra performer e pubblico in uno scambio continuo di suggestioni che restituisce non solo a ciascuno dei due attori coinvolti un’esperienza emozionale, ma genera ogni volta un risultato performativo diverso a seconda dell’esito di questa interazione. Nella piccola sala sono andati in scena spettacoli, leggermente modificati dalle regole generate dal Covid, capaci, nonostante ciò, di restituire ai presenti lo spirito originario che li ha generati: l’indagine sull’universo emotivo influenzato dal proprio corpo e dagli altri. E mentre in “Skin” (regia di Claudio Malangone, ideazione e interpretazione di Adriana Cristiano e sound design, audio programming and installation a cura di Alessandro Capasso), attraverso un circuito analogico/digitale costruito appositamente, il movimento si è trasformato in suoni seguendo le emozioni dettate dalla distinzione ippocratica delle quattro categorie umane in altrettanti temperamenti (collerico, sanguigno, flemmatico e melanconico), grazie alla protagonista Cristiano capace di ipnotizzare il pubblico in un susseguirsi di sensazioni cromo-musicali. In “Thread”, invece, (coreografia di Susan Kempster, musiche da Sinfonia n° 6 La Pastorale di L. Van Beethoven e interpretazioni di Pietro Autiero, Adriana Cristiano, Antonio Formisano e Alessia Muscariello) il filo conduttore è proprio l’invisibile “filo” che tiene legati i quattro danzatori e che non è mai una costrizione, quanto piuttosto un’interdipendenza capace di esaltare anche le individualità di ciascuno, sempre nel circuito di un confronto costruttivo dove l’altro siamo noi e viceversa. Il tutto attraversato da un’ironia e leggerezza che diventa anche meta-discorso sulla danza, quella per antonomasia “classica”, chiamata in causa da una musica interpretata con spirito ludico e affettuosamente irriverente. Nel mezzo il lavoro “A place with no name” creato e interpretato da Manuela Facelgi e Gioele Barrella, due ballerini che hanno fatto parte del progetto di formazione, sostegno e promozione di giovani autori, Borderlab, e che, con grazia e talento da coltivare, hanno inscenato l’incontro di due solitudini che si scoprono timorose della condivisione ma anche capaci di abbandonarsi all’unione. Tutto questa ricerca profonda tra corpo e mente in continua relazione con l’altro da sé è chiarita ancora meglio da Malangone che alla domanda se il lavoro di psichiatra influenza quello di coreografo chiarisce che non utilizza nella danza i contenuti del suo lavoro psichiatrico quanto, piuttosto, il metodo scientifico. Nella sua produzione a interessarlo è il rapporto, come si sottolineava all’inizio, tra il performer e il pubblico, ad incuriosirlo è la riflessione su questo scambio reciproco, sull’interpretazione di queste dinamiche. “Skin”, chiarisce, nella versione salernitana è stata privata della parte iniziale in cui dai risultati di un questionario somministrato al pubblico, in base al biotipo prevalente dalla compilazione delle risposte, la performance della Cristiano puntava più sul flemmatico o collerico, e così via. È questa la risonanza emotiva tra due interlocutori che lui, e la sua compagnia, cercano di indagare e che ogni volta crea uno spettacolo unico e irripetibile. Una ricerca che lo ha portato ad affrontare in produzioni recenti anche il tema della discriminazione di genere, attraverso un progetto internazionale che ha fatto tappa anche a Salerno qualche settimana fa. Perché poi questa sua trasversalità geografica e culturale sta anche nelle collaborazioni con artisti come Susan Kempster di “Thread” che nelle prossime settimane porterà a termine il progetto (ampliandolo da venti a quaranta minuti) che noi abbiamo visto nella sua versione “studio” (privata, tra l’altro, di due dei sei ballerini iniziali perché risultati qualche ora prima dell’inizio dello spettacolo positivi al Covid) e che verrà presentato, per la prima, a Roma. Insomma la sua analisi sull’interdipendenza tra individuo e collettività, attraverso il linguaggio contemporaneo della danza, è inarrestabile e si coglierà sotteso anche alle coreografie per l’esecuzione de’ “Le Sacre du printemps” di Igor’ Fëdorovič Stravinskij nella prima versione pubblicata, un arrangiamento a quattro mani datato 1912 e dato alle stampe l’anno successivo e che si terrà a Salerno. Ma questa è un’altra sorpresa che ci faremo raccontare presto.