Sold out alla Sala Pasolini per Paolo Cresta e Maurizio De Giovanni, protagonisti dello spettacolo e del Talk Show che ci hanno fatto toccare con mano i personaggi del mondo di Ricciardi
Di ARISTIDE FIORE
Paolo Cresta ha interpretato “Febbre per il commissario Ricciardi”, dall’omonimo racconto di Maurizio De Giovanni, nell’ambito della rassegna “Identità del Novecento. Tecnica/Religione/Giustizia”, un progetto a cura di Claudio Di Palma. A fine spettacolo si è tenuto un incontro con l’autore. Più che monologo, interpretazione multipla. Attraverso il corpo e la voce di Cresta il famoso commissario, il fido Maione e tutti gli altri personaggi escono dalla pagina e animano davvero uno scorcio della Napoli degli anni Trenta. Se ne sente ribollire il ventre; prima nel via vai quotidiano, che per il protagonista, tormentato dalle sue visioni, comprende anche coloro che se ne sono appena distaccati, morendo; poi nelle tante febbri che animano quella società: il gioco, la politica, l’amore… Seguendo il commissario nei vicoli di Montecalvario si avverte un altro fermento, stavolta dovuto a un fatto eccezionale, l’assassinio di un celebre “assistito”, uno di coloro ai quali è normale attribuire la virtù di avere contatti con le anime del purgatorio, ovvero i morti, appunto. Niente di più vero, nel caso del commissario, costretto invece a tenersi dentro il segreto di quelle tetre apparizioni, lui, che non dà i numeri, e che quindi verrebbe irrimediabilmente preso per pazzo se solo si azzardasse a allentare la sua aura di scetticismo e pura razionalità, sia pure per sfogarsi con un confidente, con una delle persone a lui più vicine. Ed ecco quindi un altro pregio di questa interpretazione: trasmettere il senso di questo peso, di questa costrizione che il destino sembra irridere proprio attraverso il contatto col microcosmo del gioco del lotto, con tutte le credenze e le vane speranze che lo contraddistinguono. Altrettanto intensamente si avverte il disagio per la visione del morto, ancora sanguinante, che sussurra incessantemente l’ultimo pensiero: poche parole oscure, spiazzanti, che però alla fine, come sempre, forniranno la conferma delle intuizioni che avranno permesso l’individuazione dell’assassino. Bisogna saperlo rendere, questo disagio che, pur essendo provocato da un fenomeno ormai consueto nella vita del personaggio, si rinnova ogni volta con lo stesso carico emotivo. A Cresta, che non a caso è anche interprete degli audiolibri tratti dai romanzi e dai racconti del ciclo del commissario Ricciardi, riesce benissimo, così come passare in rapida successione tra i personaggi dialoganti, trasmettendone, oltre la voce, l’indole, lo stato d’animo, verrebbe da dire persino il retroterra culturale; in poche parole rendendoli vivi, più di quanto non possa fare il testo, ovviamente con l’apporto personale del lettore. Un testo, quello di De Giovanni, che già di per sé si dimostra efficace in questo senso, grazie al lungo lavoro di ricerca che impegna l’autore prima della stesura di ogni sua opera, tanto più difficile e necessario quando, come nel caso in questione, si tratta di ricostruire il contesto di un luogo preciso in un’epoca ormai lontana, facendo della vera e propria microstoria ovvero quella storia del quotidiano il cui alto valore si è consolidato nel secolo scorso grazie al fecondo cambio di prospettiva dovuto all’École des Annales. Trattandosi di gialli, un altro filone di ricerche coinvolge esperti del settore, ovvero coloro i quali a vario titolo si occupano nella vita reale di omicidi. Questo approccio, insieme alla profondità della resa psicologica dei personaggi, è uno dei fattori che danno spessore a storie ben costruite e ben scritte, sebbene l’autore, offertosi a fine serata alla curiosità del pubblico, abbia sostenuto che in fin dei conti siamo tutti capaci, consapevolmente o meno, di narrare, semmai anche solo nel dare spiegazioni o nel comunicare qualche accadimento. A se stesso De Giovanni attribuisce soprattutto il coraggio di proporsi, la “faccia tosta”, come unica discriminante tra il narratore spontaneo e il professionista, tenendo a precisare di riferirsi però alla capacità primaria del narrare, che compete allo scrittore di storie, al di sopra del quale si pone lo scrittore di parole. Citando il caso di Erri De Luca, De Giovanni descrive infatti quest’ultima categoria come quella di autori rarissimi, per i quali la finalità principale è nel linguaggio stesso, nel suono, nella capacità evocativa delle parole usate per narrare storie, che diventano pertanto quasi solo un pretesto per l’esercizio della scrittura e quindi per l’uso di espressioni già ricche di senso. In definitiva, a sentir lui, il nostro autore non farebbe altro che seguire il dettato ciceroniano: basta essere padroni della materia e le parole verranno da sé. Viene da pensare allora all’utilità di tutto quel lavoro preparatorio, al quale segue una stesura relativamente veloce e senza ripensamenti, una volta che lo schema della storia sia ben definito. Il risultato è noto a tutti. Tra le varie mediazioni che il racconto primario può attraversare, nelle forme in cui viene proposto, scrittura, cinema o TV, recitazione, quest’ultima potrebbe essere la forma che vi si avvicina di più in quanto si avvale sia del linguaggio verbale che di quello del corpo. Con queste considerazioni finali il plauso di De Giovanni si è unito a quello del pubblico per tributare il giusto riconoscimento a un interprete eccellente.