I Ciarlatani e le lenti colorate di Kant - Le Cronache Spettacolo e Cultura

Non imperdibile il testo di Pablo Remòn, che chiude stasera con l’ultima replica in pomeridiana, alle 18, la stagione di prosa del teatro Verdi di Salerno, ma che ha salutato un cast perfetto in scena capitanato da Silvio Orlando, con la giovane rivelazione Francesca Botti

 Di Olga Chieffi

 Il sogno, la finzione del cinema, il ricominciare eternamente il discorso del teatro, il dubbio, l’attraversamento della linea grigia da parte di Anna Velasco, nel suo monologo sull’eclisse, che ha dovuto vedere con le lenti colorate per non ferire le cornee, durante il quale ha assistito al “sublime” della natura, appartiene ad un percorso, estetico e linguistico- filosofico che conta ormai oltre settanta anni. Nei primi dieci minuti di “Ciarlatani”, che stasera alle 18, in pomeridiana, chiuderà la stagione di prosa del Teatro Verdi di Salerno, si sono epifanati, tutti insieme, Pirandello, Conrad, Matte Blanco e Kant, a cominciare dalla “Critica della ragion pura”, in cui sostiene che non possiamo conoscere la realtà “in sé”, ma solo come essa appare a noi attraverso i “filtri” o “lenti” della nostra percezione e comprensione. Queste lenti includono categorie mentali come spazio, tempo e causalità, che strutturano e limitano la nostra esperienza del mondo, quindi,  il pensiero di Matte Blanco con la caratteristica principale della manifestazione artistica risieda, in buona sostanza, nella capacità di dire di più di quanto dica esplicitamente, lasciando emergere una rete di significati in apparenza non visibili, intorno ai vari linguaggi artistici, capaci di introdurci in un luogo inclassificabile, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, né a quello, che ne è l’opposto speculare, dell’utopia, del non-esistente per definizione, della fantasia sbrigliata e non ultimo Conrad con “La linea d’ombra” e la sua citazione più celebre “Si va avanti. E il tempo, anche lui va avanti; finché dinnanzi si scorge una linea d’ombra che ci avvisa che anche la regione della prima giovinezza deve essere lasciata indietro”. Questi gli spunti letti per raccontare due storie che s’intrecciano in Ciarlatani. I due personaggi principali, Diego Fontana e Anna Velasco, rappresentano archetipi di artisti in crisi, alle prese con le loro ambizioni e le loro paure. Diego, un regista affermato ma insoddisfatto, si confronta con il proprio passato segnato da un incidente aereo che lo ha portato a nuove consapevolezze. Anna, figlia di un regista, cerca di affermarsi in un mondo che sembra giudicarla non solo per il suo talento, ma anche per il peso del suo nome. L’approccio metateatrale di Remón, con personaggi surreali e situazioni grottesche, riflette sul mondo dell’arte e sulla ricerca di autenticità, nonché  La presenza di apparizioni come Dorothy e Veronica Del Rey, insieme a elementi di comicità e ironia, arricchisce la narrazione, creando un mix di realismo e fantasia. Silvio Orlando, nel ruolo di Diego, offre un’interpretazione intensa e ironica, mentre Francesco Brandi, nel ruolo di narratore e autore, riesce a coinvolgere il pubblico in un dialogo diretto, rompendo la quarta parete e rendendo lo spettatore parte integrante della riflessione. Blu Yoshimi e Francesca Botti completano il cast, portando ciascuna la propria unicità e talento, contribuendo a creare un’atmosfera vibrante e dinamica. Il tema del dualismo tra successo e fallimento, così come quello tra realtà e finzione, si dipana con intensità nell’opera “Ciarlatani”. Qui, gli attori diventano emblematici di una condizione esistenziale in cui l’essere e l’apparire si intrecciano in una danza complessa, in cui le maschere indossate sul palcoscenico riflettono le molteplici facce della vita quotidiana. Il successo, desiderato e celebrato, si rivela spesso illusorio. La ricerca della fama può trasformarsi in un’ossessione, generando pressioni insostenibili che portano a un inevitabile confronto con il fallimento. Questo ciclo di speranza e delusione è evidenziato attraverso le esperienze dei personaggi, che si muovono tra trionfi effimeri e crisi profonde. La loro vulnerabilità diventa specchio di una società che premia l’apparenza, lasciando poco spazio all’autenticità e alla vulnerabilità umana. In questo contesto, l’arte si scontra con il commercio, creando un terreno fertile per la riflessione. L’opera sottolinea come la creatività possa essere sfruttata e ridotta a merce, con artisti che si trovano a dover scegliere tra integrità e opportunità. Questa tensione tra l’autenticità artistica e le aspettative del mercato porta a una crisi d’identità, in cui i personaggi, alla ricerca di un senso di sé, si sentono spesso smarriti e disorientati. La conclusione dello spettacolo invita lo spettatore a una profonda introspezione. Uscendo dal teatro, ci si rende conto che le riflessioni sulla propria vita e sulle proprie ambizioni possono apparire vane di fronte alla consapevolezza che la vita stessa è una sorta di palcoscenico, dove ognuno di noi recita un ruolo. La finzione diventa così una convenzione, un modo per navigare tra le aspettative e le pressioni esterne. La vince il quartetto di interpetri, e su tutti Francesca Botti, vera rivelazione, capace di passare con facilità da un personaggio all’altro, dimostrando una grande versatilità.