
Nicola Russomando
L’elezione di un nuovo papa pone di fronte al quesito circa la continuità o la rottura rispetto al pontificato precedente. La questione, in realtà, sarebbe superata sulla considerazione teologica della continuità dell’unico soggetto- Chiesa, come ebbe ad affermare Benedetto XVI nel famoso discorso alla Curia romana del 2005. Eppure, considerando l’obiettiva e naturale diversità del genere umano, nel trapasso tra Francesco e Leone, si possono già individuare alcune note di fondo destinate a segnarne il percorso sulla cattedra di Roma. Tutto il pontificato di Francesco è stato scandito dalla teologia del popolo, una formula specificamente latinoamericana che fa del popolo un luogo teologico. Teologo di riferimento di Bergoglio è stato Juan Carlos Scannone, che alla fede del “Santo Popolo di Dio” ha assegnato il fondamento stesso dell’ecclesiologia in una prospettiva di rapporti intra-ecclesiali di tipo orizzontale. Significativa quindi l’affermazione più volte ripetuta da Francesco per cui con la pietà popolare “il popolo evangelizza continuamente sé stesso”. Tesi proclamata sin dai suoi esordi con l’esortazione “Evangelii gaudium”, che, spinta alle sue estreme conseguenze, ridefinisce anche la struttura gerarchica della Chiesa fondata sul sacramento dell’ordine quale presupposto della potestà di governo. La traduzione pratica di questi principi si ritrova nella riforma della Curia romana, la cui costituzione “Praedicate Evangelium” può annoverare oggi una “prefetta” al vertice del Dicastero per i Religiosi, e, soprattutto, nel “Sinodo sulla sinodalità”, che, nel tentativo di coinvolgere tutto il popolo di Dio nel processo decisionale, ha prodotto al più la paralisi della seconda Assemblea sinodale delle Chiese in Italia. Infatti, l’esito dell’assemblea sinodale italiana, la cui regia è da ascriversi al cardinale Zuppi, in qualche modo è rappresentativo degli equivoci generati papa Francesco. Se è vero che nelle intenzioni del papa dalle assemblee sinodali doveva essere fugata ogni impressione di parlamentarismo, nei fatti quattro anni di consultazioni dal basso per ridefinire l’immagine della Chiesa si sono arenati su una mole di emendamenti presentati su cinquanta proposizioni, tra rivendicazioni di sigle LGBTQ+ e pretese vetero-femministe circa il ruolo della donna nella Chiesa. Nel dibattito sinodale scompare Cristo a tutto beneficio di rivendicazioni per una partecipazione ecclesiale di tipo funzionalistico. L’incipit di papa Leone manifesta sin da subito l’essenziale centralità che Cristo ha nell’edificazione del suo corpo che è la Chiesa. Tutta la sua omelia nella prima messa, celebrata con il collegio cardinalizio nella Sistina, è stata focalizzata sull’interpretazione della figura di Gesù in ogni epoca, sin da quel giorno a Cesarea di Filippo quando Pietro fece la sua professione di fede, che gli procurò il primato sulla Chiesa oggi trasmesso a Leone XIV. In una dimensione questa sì verticale, alla cui sommità ci sono Pietro e i suoi successori con il compito di confermare i fratelli nella fede. Anche su questo è possibile tracciare una linea di discrimine, se solo si pensa che Francesco ha declassato a “titolo storico” del papa quello di Vicario di Gesù Cristo, pur affermato dogmaticamente da un concilio, il Vaticano I di Pio IX. Al contrario Leone, nel riproporre nella sua omelia una citazione di Ignazio di Antiochia per cui si diventa “vero discepolo di Cristo solo quando il corpo non è più visto dal mondo”, allude alla necessità di manifestare Cristo al mondo facendo scomparire l’umana individualità specie in chi esercita un ministero di autorità nella Chiesa. E anche in questo passaggio è possibile ritrovare un’eco ratzingeriana, quando Benedetto XVI affermava che “compito di un papa non è far risplendere la propria luce, ma quella di Cristo”. Sarebbe comunque semplicistico riportare la differenza d’impostazione alle due famiglie religiose di appartenenza, i gesuiti per Francesco, gli agostiniani per Leone. Al di là del fatto che nella stessa congregazione religiosa si manifestano oggi posizioni anche contrapposte, è la visione teologica a rappresentare il vero discrimine. La “chiesa in uscita” di Francesco intendeva rivolgersi a quelle frange di umanità che prescindono dall’idea di Dio in nome di una fratellanza universale senza troppi sofismi teologici. Le prime battute di Leone, sin dal saluto pasquale dalla loggia delle benedizioni, sono un invito a riproporre la divinità di Cristo al centro dell’universo umano, collocazione da cui derivano verità e giustizia nei rapporti umani. Quella di Leone è una sfida per recuperare anche nel linguaggio l’unum necessarium nella vita della Chiesa, mentre deve confrontarsi con tutta una serie di processi avviati dal suo predecessore, di cui al momento non si intravede l’esito. “Chi non raccoglie con me, disperde”: è la parola di Gesù con cui ogni papa inequivocabilmente deve rapportarsi.