di Erika Noschese
In un anno che si prospetta positivo per il settore vinicolo italiano, con la vendemmia 2025 che secondo le stime di Assoenologi, Uiv e Ismea potrebbe toccare i 47,4 milioni di ettolitri, segnando un incremento dell’8% e confermando il primato mondiale dell’Italia, non mancano le sfide. Nonostante le prospettive di ottima qualità e quantità, il mercato del vino si trova ad affrontare una crisi legata al calo dei consumi e a problematiche come dazi e una comunicazione che penalizza ingiustamente il vino.
In questo scenario, una delle voci più autorevoli è senza dubbio quella di Andrea Ferraioli, titolare, insieme alla moglie Marisa Cuomo, dell’omonima cantina. Dalla splendida cornice di Furore, in Costiera Amalfitana, Ferraioli ci offre la sua visione: un’annata eccezionale in termini di qualità e quantità, ma che si scontra con le difficoltà di un mercato in profonda evoluzione. Un mercato in cui, secondo lui, i produttori stessi hanno contribuito a creare confusione, ma in cui la vera arma vincente rimane l’unicità e l’emozione che un vino, e il territorio da cui proviene, sono in grado di trasmettere.
La vendemmia è un momento cruciale per ogni produttore. Com’è andata l’annata di quest’anno rispetto alle precedenti?
«Quest’anno è una gran bella vendemmia. Non è stata anticipata come gli altri anni, ma un po’ più regolare. Negli anni passati abbiamo assistito a una vendemmia precoce, mentre quest’anno si è normalizzata grazie a piogge importanti ad agosto, che hanno reso più stabile il clima. L’umidità ha fatto ripartire la vegetazione e ha ritardato la maturazione. Siamo in ritardo di circa 10 giorni, ma solo rispetto all’anno scorso, che fu un’annata anticipata a causa delle condizioni climatiche».
Quindi non si può parlare di ritardo, ma anzi di un ritorno alla normalità?
«Esatto. Non siamo in ritardo, è il periodo giusto. Questo ha fatto sì che quest’anno ci sia una bella vendemmia, che ci permette di produrre quasi quanto previsto dai disciplinari. Siamo sempre stati sotto la media, o sotto i numeri del disciplinare, mentre questa è una vendemmia ideale sia per quantità che per qualità. Peccato che il mondo del vino sia un po’ in crisi».
A cosa si riferisce quando parla di crisi?
«Il calo dei consumi è evidente, il consumo pro capite scende, e i dazi hanno creato un po’ di problemi, mettendo in difficoltà molte aziende. Sono poche le cantine che riescono a mantenere i propri numeri. Dopo gli exploit degli anni scorsi e dopo l’eccesso di novità che sono state lanciate sul mercato, dopo aver calcato troppo il pedale dell’acceleratore e aver confuso il consumatore con tante etichette non legate al territorio, come i vini in anfora, il mondo del vino sta cambiando. Certi comportamenti esagerati stanno venendo fuori. Le difficoltà, in gran parte, ce le siamo create proprio noi produttori».
Cosa può dire sull’attacco all’alcol di cui si parla spesso?
« L’attacco all’alcol è legato quasi esclusivamente al vino, mentre gli altri alcolici si pubblicizzano liberamente. Penso al gin, al cognac, al brandy, al limoncello e a tanti altri. L’alcol è sotto attacco, ma chi ne paga le conseguenze è soprattutto il vino. Della birra, ad esempio, non se ne parla mai. Bere tre bicchieri di birra equivale a mezza bottiglia di vino. L’alcol è una parte percentuale: se in un vino a 13° c’è il 13% di alcol in un litro, in una birra a 5 gradi ci sono 50 grammi di alcol. Per arrivare a 130 grammi bastano due litri e mezzo di birra, per ingerire lo stesso quantitativo di alcol di una bottiglia di un litro di vino. Quindi, bere 100 ml di vino o 250 ml di birra è la stessa cosa. A volte questi fenomeni non vengono spiegati attentamente, e poi oggi si cerca di porre rimedio facendo ulteriori danni».
Si riferisce ai vini dealcolati?
«Sì. Il vino dealcolato è frutto di una chimica alimentare. Se il vino o la birra sono frutto di fermentazione alcolica, il vino dealcolato è il risultato della medesima fermentazione ma poi viene trattato chimicamente. Non so dove vogliamo arrivare. Forse c’è una falsa comunicazione in questo settore e non se ne parla perché le multinazionali dettano le regole».
Tornando alla sua azienda, come affrontate queste sfide del mercato?
« Ormai, per le nostre aziende, c’è stato un livellamento e una stabilizzazione del modo di penetrare il mercato. Un fatto è certo: le scelte fatte 30 anni fa, quando è arrivata la DOC, ci avrebbero permesso di approcciare alcune scorciatoie con vini internazionali famosi, ma noi non l’abbiamo fatto. Abbiamo cercato di perseguire la strada dell’unicità, visto che il nostro è un territorio geomorfologicamente unico e i nostri vini sono unici.
Abbiamo puntato a salvaguardare il tipo di varietà e i sistemi di allevamento a parete. Abbiamo creato una tipicità del comune di Furore, con le belle pergole che sono un vero e proprio arredo paesaggistico. Queste pergole non fanno altro che raccontare ed emozionare il consumatore attraverso un sorso di vino. Quando una persona viene a farci visita, si innamora del nostro territorio».
Un territorio non certo semplice da lavorare…
«Esatto. Siamo un territorio favoloso, che però si contrappone a difficoltà logistiche, per cui c’è assenza di meccanizzazione sui terrazzamenti. Tutto è frutto della fatica dell’uomo. Quando uno assaggia il nostro vino, l’unicità esprime sensazioni particolari, per cui oggi tutto ciò che è emozionale è vincente».





