
Mario Mele
Era il primo giorno di laboratorio presso il Liceo Artistico Sabatini-Menna di Salerno. Ero appena arrivato da Assisi, dopo un lungo viaggio, con 39 di febbre. Ma non potevo mancare. L’idea di incontrare quei ragazzi, di iniziare con loro un percorso creativo sul cinema, mi dava la forza di esserci comunque. L’aula era ancora fredda, i volti un po’ timidi, e sul tavolo c’erano solo fogli bianchi. Alcuni studenti scrutavano in silenzio, altri smanettavano con il telefono. Ero stato invitato dal prof. Vittorio Morrone a guidare un laboratorio di cinema che, almeno nelle intenzioni, doveva esplorare il tema dei “confini”. Ma quello che accadde fu molto di più. Non avevo in mente un semplice laboratorio. Volevo creare un’esperienza. Qualcosa che lasciasse un segno. Un piccolo seme cinematografico capace di far germogliare nei ragazzi una nuova forma di sguardo sul mondo. Il progetto si chiamava “L’audiovisivo tra storie, teorie, stili e tecniche”. Con il supporto del prof. Morrone, abbiamo guidato gli studenti attraverso tutte le fasi della creazione di un cortometraggio: ideazione, scrittura, analisi di fattibilità, riprese, montaggio. Il tema? Il confine. Ma non solo geografico. Abbiamo discusso, scritto, ci siamo messi in cerchio. Abbiamo parlato di confini fisici, certo — ma anche di quelli invisibili, psicologici, sociali, culturali. I ragazzi hanno esplorato il tema come giovani filosofi del presente: lucidi, profondi, visionari. Ne è venuto fuori un piccolo film: “LIMEN. Dove finisce il confine”. Un corto pensato come viaggio concettuale tra fisica quantistica, migrazioni, architettura parametrica, filosofia della complessità, cyborg e identità. E realizzato con location simboliche della città di Salerno, scelte non solo per la loro bellezza visiva ma come spunti di riflessione per i dialoghi: luoghi pensati per far interagire i ragazzi con l’ambiente urbano e la storia culturale della città, come la Stazione Marittima di Zaha Hadid, il lungomare di Salerno, Piazza della Libertà, e ovviamente l’aula scolastica, microcosmo perfetto di contraddizioni. Integrare l’AI nel processo creativo Abbiamo integrato l’intelligenza artificiale (Claude 3.7 Sonnet) fin dalle prime fasi del processo creativo: dalla scrittura delle sceneggiature, all’elaborazione delle idee, fino alla valutazione finale. Dopo aver caricato tutte le proposte scritte dai ragazzi, abbiamo chiesto all’AI non solo di analizzarle secondo criteri di fattibilità, coerenza tematica e valore educativo, ma anche di suggerire revisioni, semplificazioni e sviluppi alternativi. Tuttavia, è stato sempre il nostro sguardo a guidare il processo, cercando risposte che risuonassero con le nostre proiezioni mentali, con la visione collettiva emersa in aula. La sua analisi è stata uno stimolo, non una sentenza: un modo per affinare la nostra consapevolezza e confrontarci con prospettive inedite. L’intelligenza artificiale è diventata così uno specchio critico, un compagno di scrittura e decisione, con cui dialogare — e non uno strumento da subire passivamente. Una vera esperienza di contaminazione tra immaginazione umana e capacità computazionale. Non bisogna avere paura della tecnologia, ma imparare a integrarla con intelligenza, spirito critico e umanità. Solo così può diventare davvero un’estensione delle nostre capacità creative e non un loro rimpiazzo. Un set vero, per un’esperienza reale Ho messo a disposizione le mie attrezzature professionali, permettendo ai ragazzi di fare esperienza concreta con strumenti reali di produzione cinematografica. Abbiamo dedicato tempo a spiegare i ruoli principali sul set, assegnando a ciascuno un compito specifico: dallo script supervisor al regista, dal direttore della fotografia al produttore. Questo ha permesso loro non solo di imparare “cosa si fa” sul set, ma anche di comprenderne il senso, le responsabilità e le dinamiche. La parte teorica si è così fusa con l’esperienza pratica, dando vita a un apprendimento immersivo e partecipato. I ragazzi hanno toccato con mano cosa significa davvero girare un corto: preparazione, prove, scelte creative, stress, imprevisti, entusiasmo, collaborazione. E hanno capito che il cinema è prima di tutto un lavoro collettivo. Cinema come attivatore culturale Mettere in scena, scrivere, filmare e montare qualcosa che affronta concetti complessi — e talvolta mai sentiti prima — è un esercizio potente. Attraverso il coinvolgimento diretto di tutti, siamo riusciti a far riflettere i ragazzi su temi articolati, a innescare nuovi discorsi e ad arricchire il loro lessico e la loro cultura. Per esempio, quando uno studente recita una battuta sulla fisica quantistica, ripetendola decine di volte, studiandola da solo e con gli altri, riascoltandola più volte in fase di montaggio, è inevitabile che qualcosa, anche solo un seme, si innesti nella sua mente. Magari oggi non lo sa spiegare con precisione, ma domani potrebbe voler approfondire. Uno degli obiettivi che mi sono posto è stato proprio coinvolgere quegli studenti meno inclini allo studio per antonomasia. E vederli recitare battute su filosofia della scienza, cyber-futurismo, intelligenza artificiale o fisica quantistica è stata una soddisfazione enorme. Sono convinto che qualcosa di questa esperienza rimarrà con loro e darà frutti anche a distanza di tempo. Dove germogliano le immagini: il cinema come soglia di trasformazione Resta un pensiero: che l’arte, quando incontra la scuola e la tecnologia, può diventare uno spazio trasformativo. Un limen, appunto: soglia tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare. Perché questo è il fine ultimo del fare cinema a scuola: non solo avvicinare i ragazzi a un linguaggio che oggi struttura l’immaginario collettivo e le dinamiche sociali, ma usarlo come portale verso territori interiori ed espressivi che spesso restano inesplorati. Il cinema non è più un atto tecnico riservato a pochi esperti e artisti: è un linguaggio pervasivo della nostra cultura, un codice di percepire e vivere il mondo (vd. Alex Giordano). Proprio per questo, dovrebbe essere insegnato a scuola, non come attività opzionale, ma come parte integrante e strutturale della didattica. Il cinema diventa così una macchina visionaria, capace di attivare dimensioni parallele dell’apprendimento, dove emozione, intuizione e pensiero critico convivono. Coinvolgere gli studenti in questo viaggio, soprattutto quelli che faticano a riconoscersi nei codici tradizionali della scuola, significa offrire loro uno spazio in cui germogliano intuizioni, consapevolezze, identità. Perché talvolta basta una scena, una battuta, un’inquadratura condivisa per accendere la scintilla di un futuro possibile.