Gemma Criscuoli “
Perché ricordare?” chiede, a chi le rammenta la morte del genitore un anno addietro, l’lrina delle “Tre sorelle” di Cechov, con cui per un momento la protagonista si identifica. Si potrebbe rispondere che quel ricordo è la nostra pelle, non possiamo sbarazzarcene e, più di qualunque altra esperienza, aprire la porta al dolore permette di capire e capirsi. Percorso affascinante sulle implicazioni della sofferenza e sulla finzione come opportunità di far emergere il non detto, “Diario di un dolore” di e con Francesco Alberici vede in scena un’intensa Astrid Casali, che ha collaborato al progetto insieme a Ettore Iurilli ed Enrico Baraldi. Lo spettacolo, accolto con favore presso il Piccolo Teatro del Giullare, ha segnato una nuova tappa di Mutaverso, il progetto artistico diretto da Vincenzo Albano. Ispirandosi all’omonima opera di C. S. Lewis, l’allestimento si articola in quattro quaderni e in un epilogo, condividendo la narrazione per analogia del modello letterario e contaminandola con memorie effettivamente vissute, aspetti metateatrali e continue sollecitazioni a indagare la percezione del tormento anche nei suo aspetti illusori, ambigui, destabilizzanti. Si spiega, quindi, la decisione di accogliere gli spettatori con un bicchiere di vino senza alcun confine tra spazio scenico e platea: proprio perchè nessuno ama guardare in faccia ciò che l’affligge, meglio accostarsi a esso attraverso il velo trasparente della performance. Alberici, che ha il dono – sempre più raro in un attore- della credibilità umana, sostiene di aver sempre avuto difficoltà nel concepire gli inizi di una rappresentazione. In effetti, ciò che ha un principio deve necessariamente avere anche una fine, ma quando il dolore diventa l’aria che si respira, quali confini è possibile tracciare? Questo stato d’animo è declinato in due modi diversi. Francesco ricorda la stanza in cui ha vissuto, tra scatoloni e un materasso in terra, a cui ha sempre desiderato sentirsi estraneo, mentre l’autoritratto di Franz Ecke del 1981 per Frigidaire (un giovane dal viso bendato, di cui si vedono solo gli occhi e la bocca) diventa il correlativo oggettivo di un disagio misterioso che è pena e disincanto, ironia e dramma. L’autoritratto mostra un sopravvissuto e poco importa se la storia a cui è legato (un effettivo incidente dell’autore) è falsa: lo sguardo che si intuisce tra le bende comunica qualcosa che persiste e che non può essere ignorato. Quando medita sul “righello del dolore” (provocare un disastro che costringe su una sedia a rotelle il migliore amico, per esempio, fa meno male rispetto a quando si è la vittima), non dà o non sa dare un nome a ciò che prova: riflette sulle sfumature dell’afflizione e chi osserva è spinto a propria volta a guardare dentro di sé, a cercare quel peso che, chissà quando, gli ha mozzato il respiro. Il dolore di Astrid, invece, ha alle spalle una storia. Nel ricordare di aver perso a diciassette anni il padre, modello, antagonista, oggetto di un amore “fuori campo”, mai esplicito, ma vivo, la donna non può che ritrovare se stessa: è attrice, nata nel teatro del padre, di cui ha condiviso la passione fino a giocarsi la fortuna a New York e proprio in quel teatro si è svolta la festa delle sue esequie secondo le sue volontà. Quando i due interpreti restano seri con cappellini giocosi in un diluvio di palloncini, stanno celebrando nella nudità della solitudine e della consapevolezza quella svolta che la perdita sa sempre essere. È una sorta di contraltare alla danza gioiosa con cui hanno, di fatto, dato il via allo spettacolo: occorre tanta energia per farsi a pezzi il cuore. La sistematica rottura dell’illusione scenica, mostrando, per esempio, il trucco nello sbattere la testa sul tavolo o nel fingere di piangere, restituisce al palcoscenico un’inaudita forza liberatoria. La finzione diventa evocazione salvifica di ogni tipo di pena, quella non decifrabile e quella ricostruibile (ma non addomesticabile). Le due figure attivano l’una nell’altra un’apertura incondizionata a ciò che le ha ferite, un ascolto amoroso delle proprie ferite. È lì che può annidarsi la rinascita, il momento in cui le cose possono recuperare un senso. La messinscena prepara, quindi, l’attimo in cui Astrid riceve la telefonata che le annuncia il decesso del padre. Questa fase viene ricostruita con pochi dettagli: il tavolo con il caffè, lo zaino per andare a scuola, il quaderno dell’amica da cui ricopiare la versione di greco, il silenzio di chi ancora non sa cosa porterà il nuovo giorno. Appresa la notizia, il pianto della donna non è solo un pezzo di bravura: l’artificio racchiude l’essenza di un sentimento, lo mostra autentico come forse non accadrebbe in un differente contesto. “Se non riesci a raccontare il dolore, non esiste”, ha affermato Alberici nell’incontro con il pubblico coordinato dal giornalista Michele Di Donato. I corpi, non meno delle parole, raccontano l’indicibile, mentre la viva morte del teatro è la sorgente di ogni inizio.