Regnabo. Regno. Regnavi. Sum sine regno. I canti di Benediktbeuern. Memes and inside jokes: il medioevo dei goliardi interpretato a Salerno. Pubblico divertito dalla cantata, che non ha cali di tensione. Programma di sala inutile senza indicazioni, testi e traduzione. Tradita la lingua composita originale. Brillano il coro maschile, i flauti, le percussioni e le voci bianche di Silvana Noschese
Di Alfonso Mauro
Jacques Le Goff e Gustav Mahler: l’immaginario medievale e l’opera d’arte contenente un mondo intero. Il mondo intero. Il mondo proto-erasmiano sì dei goliardi e dei clerici vagantes dei secc. XI, XII e XIII, ma come potrebbe essere quello dei loro odierni colleghi magari in Erasmus — col caveat dell’inglese in loco al latino quale lingua franca corda corale dell’arrampicata poetica pseudo-liturgica ma secolarissima. I testi ricuperati. Il mondo musicale post-tardoromanticismo. Sfrontatezza anzitutto; e l’inesorabile mutevolezza della Fortuna, la Sorte cui persino Giove chinava il capo riccioluto (e l’Ottimo-Massimissimo giudaico-cristiano?); la natura effimera del potere e della vita; la gioia primaverile; il sacro ed il profano (il sacrilego); il peccato e la virtù; il giuoco d’azzardo; la lussuria e l’amor cortese; la gola e la pudicizia. L’amor triumphans ma non troppo. E in ogni lirica/scena delle “Cantiones profanae cantoribus et choris, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis” la Ruota della Fortuna, su cui si squaderna e sotto la quale è macinato il theatrum mundi, compie un giro d’orologio: la gioia è amarezza, la speranza afflizione. E anche a noi, volubilmente, spettatori alternando il giudizio e le impressioni, gli slanci e le costernazioni — queste ultime sempre affollanti i palchetti dei melomani. La formula artistica di Carl Orff circoscrive e connette ogni momento musicale in e ad un’azione scenica auspicata. C’è del didattico e del didascalico e del sano strafare in questo quasi-Neoclassico. Nelle sue intenzioni, la coreografia e il design scenografico avrebbero dovuto immaginificamente informare la cantata; e forse qui il limite della riproposizione salernitana della celeberrima composizione, venerdì sera sul palcoscenico del Massimo civico — e tantopiù che gli stessi interpreti (bene Gustavo Castillo, meno in forma Laura Claycomb, applaudita Gilda nel 2009 salernitano) si sono loro sponte finalmente abbandonati a una piccola drammatizzazione la quale, quantunque erompendo apprezzatissima e liberatoria, giunge tarda e fioca nel restituire questo Medioevo degli anni ’30 al suo immaginario. Un’occasione mancata e invece filologicamente còlta da fior di produzioni consultabili sull’Euterpe-YouTube. Ne va della godibilità dell’ascolto, colmo com’è di battute, battutine e battutacce ma da spiegarsi tutte al pubblico contemporaneo — magari rafforzandole in un po’ di savio gigioneggiare. Qui ne siamo rimasti mezzi-orfani, non solo performativamente, ma anche quanto a guida all’ascolto — assente questa, figuriamoci sperare in una traduzione del libretto! Ma solo così il Medioevo tutto memes e inside jokes e sghignazzanti luoghi comuni e commoventi patetismi sarebbe meglio rivissuto nelle note di Orff e nel Verdi d’Irno. La filologia. A limpidamente giudicare dal rigorosissimo e squisitamente timbrico-percussivo telaio compositivo sul quale l’Auctor ed educatore tedesco ha intessuto i fantasmagorici e poliedrici testi, è fuor di dubbio che il Latino dato vocalmente e atmosfericamente per scontato è quello, poco familiare alle scuole italiane, della cosiddetta “pronuncia restituta” (quella, ond’intenderci, dai grafemi ‘c’ e ‘g’ gutturali anziché palatali, e dai dittonghi con due distinguibili suoni); quindi, se, da un lato, tanto “Latino ecclesiastico” fa incensata aria di casa e straniamento uditivo al contempo, dall’altro recede inesorabile dietro un coro femminile circa la performance del quale ci è stato dato nutrire più di qualche incertezza qualitativa. Meglio voci maschili e bianche (illuminate quest’ultime da un faretto violaceo felpatamente a tentoni verso la messa in scena azzeccata), nonché l’orchestra alcuni elementi della quale hanno brillato pienamente nell’ascolto dal vivo — massime le succitate percussioni, nonché i flauti, maestri eclettici capaci di evocare il suono antico, come anche il primo fagotto nel suo solo. Il tempo giocondo della primavera ritrovata ha ceduto un po’ troppo il passo al cigno arrosto dell’Olim lacus sbeffeggiante il liturgico “Planctus cygni” (numerose le alucce che sbattevano in coro e pubblico erano quelle delle partiture e dei programmi di sala usati a mo’ do ventaglio, nella buia afa del concertare estivo), ma tuttavia, nonostante le summenzionate spine ond’erano rose e roselle irte, è d’ “amore virginali” che siamo arsi (iam amore virginali / totus ardeo) like a virgin, per dirla coi goliardi e le goliarde di oggi, dilettandoci nell’ascolto di una cantata mirabilmente policroma, onnicomprensiva, pluridimensionale e sempre mutevole come la Fortuna che la schiude e conchiude — magari sovversivamente sospirando le braccia della Chünegin von Engellant, calzando il coturno dell’abate della Cuccagna del Sinedrio degli sbronzi e della Confraternita della bisca, adorando Venere generosa tannhäuserianamente, o a giuoco e a turno snudando il dorso alle villanie della Sors immanis. Con noi, vòlto in ruota, un po’ di latinorum, qualche tempo in saltuarie sfasature tra coro e orchestra, alcune voci “in trutina mentis dubia”, l’ottima bacchetta, e temi lirici deliziosamente primitivi al cui vietato-ai-minori le lingue arcaiche rifanno il belletto apollineo. Ma noi acciambelliamo il braccio anche a Dioniso, ritrovandoci insieme e cantando dilettose sconcezze come otto secoli fa, anche nel post spettacolo, “Alle dissetanti stille / liban cento: liban mille!”.
PhotoCourtesy Nicola Cerzosimo