A Cava de’ Tirreni oggi, alle ore 21, Espedito De Marino e Gianni Marcellini ospiti della XX edizione dei Concerti d’Estate di Villa Guariglia in tour firmati da Antonia Willburger
Di OLGA CHIEFFI
“Duje viecchie prufessure ‘e cuncertino, nu juorno, nun avevano che fa’. Pigliájeno ‘a chitarra e ‘o mandulino…Suspire e vase museca e passione. Robba ca sulo a Napule se fa”. Seconda serata dedicata alla tradizione musicale partenopea, questa sera, a Cava de’ Tirreni, per la XX edizione dei Concerti d’Estate di Villa Guariglia in tour firmati da Antonia Willburger e promossa dal CTA. Riflettori accesi alle ore 21 sul sacrato del Duomo, su Espedito De Marino alla chitarra e Gianni Marcellini al mandolino, i quali, sulle tracce dei “posteggiatori” della canzone “Duje paravise” ci accompagneranno in un tour di melodie dall’’800 ai giorni d’oggi. A Napoli ci troviamo in una città che, a prescindere dal genius loci e dalle vocazioni artistiche, in tutti i campi, anche la scienza considera privilegiata, riconoscendo in essa una particolare vibrazione dell’aria, vibrazione che costituisce il supporto fisico di base per una perfetta comunicazione musicale, che agevola la produttività. Ciò ha favorito da sempre i napoletani. Fin dall’antichità classica si hanno segni della loro disposizione e della loro finezza d’orecchio, e sappiamo che Nerone – vanitosissimo cantore – venne a Napoli per cimentarsi davanti a un pubblico veramente competente, ardente crogiuolo in grado di rifondere canti d’ogni genere. La stagione della canzone napoletana è sembrata tante volte esaurita. Invece, quel misterioso e sfuggente Dna ogni tanto ricompare nelle canzoni e dimostra la vitalità di una tradizione inesauribile, ed ecco che fra un’antica villanella di Velardiniello e la canzone di Pino Daniele passano più di quattrocento anni eppure, se provate a canticchiare o ad accennare al pianoforte, magari con un dito solo, qualche frase di “Boccuccia de’ no’ pierzeco apreturo” (1537) e di seguito qualcuna di “Napule è…” (1977) vi accorgerete che sono figlie della stessa madre, che non è solo la lingua. La poesia dei canti racconta di iperboli d’amore e di disprezzo, dell’idillio marino, dei “tipi” napoletani, delle due guerre, favole, apologhi, le laudi dei tanti luoghi di una Napoli che non è solo il complesso di abitazioni chiuso in un’immaginaria cinta muraria, i quartieri, Posillipo, Mergellina, Santa Lucia, ma è le sue coste, le sue colline, i suoi casali, un atteggiamento mentale, col medesimo gusto e la medesima fantasia ancora oggi presenti in altre forme o che potrebbero ritornare. Questo ed altro fa parte della storia collettiva e dei vissuti individuali raccontati in musica e poesia dai canti tradizionali i quali sono portatori anche di un ricco patrimonio di “bellezza”: il fascino della melodia, la capacità di improvvisazione, la “libertà” di “rivestire di sé” un canto, la capacità di creare e usare metafore profonde e sorprendenti, l’originalità dei ritmi, la forza del sentimento “vero” contro ogni divieto “artificioso”, il senso di ribellione alle ingiustizie, l’umorismo con cui affrontare le peripezie della vita, di un popolo e di una città in cui anche il “Silenzio” è “cantatore”.