Benigni, Meloni, Bernini. Se si s’inciampa nelle incompetenze - Le Cronache Attualità
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Benigni, Meloni, Bernini. Se si s’inciampa nelle incompetenze

Benigni, Meloni, Bernini. Se si s’inciampa nelle incompetenze

di Aldo Primicerio

Va subito detto che non stiamo qui a discutere un grande come Roberto Benigni. E non entriamo nel merito del suo racconto, dei suoi accenni archeologici, quelli agiografici sulla vita di Pietro e degli Apostoli di Gesù, o teologici sulla lettura dei Vangeli. Anche se vi scoprissimo delle falle, ci perderemmo. Tuttavia, condivido quello che ha scritto Giorgio Simonelli: Roberto questa volta non ci è piaciuto. Dopo averci affascinato ed emozionato con Dante, la Costituzione Italiana, i Dieci Comandamenti, con “Pietro Un uomo nel vento” ci ha lasciati un pò così, come si dice. Sì, ha sfiorato i 4 mln di telespettatori, è stato il monologhista torrenziale di sempre, ma non con il boom che ci si aspettava. E questo ci dispiace, perché lui ci ha abituato ad ammaliarci ed a sorprenderci con numeri soverchianti. Ma cos’è che ci fa accomunare Benigni a Meloni e Bernini? Che c’entra Atreju?  Cos’è che in Roberto non avrebbe funzionato? Perché rischiamo di affondare come unica vox di dissenso in un oceano di consensi?

 

Un racconto sì trascinante, ma forse da sostenere con un’ambientazione diversa. E poi Pietro, da santo riumanizzato in un giovane impacciato

Roberto ci aveva abituato ad esibizioni su un palco povero ed essenziale. Dove a spiccare era lui, con la sua presenza straripante. Insomma, un gigante in un corpo minuto. Questa volta invece l’inverso. A dominare la scena sono stati un sito prestigioso come la Basilica di S. Pietro, le meravigliose aiuole vaticane, un palco a semicerchio con gli spettatori distanti dalla pedana del protagonista. Il tutto con frequenti videate dall’alto, probabilmente realizzate con gli immancabili droni. Insomma non più lui al centro dell’attenzione con il suo torrente verbale quasi senza respiro. Ma il luogo. E  poi la revisione umanizzata di Pietro. Fu primo vescovo di Roma e primo Papa, morto crocifisso a testa in giù dai Romani dell’imperatore Nerone su sua espressa richiesta, perché si considerava indegno di morire allo stesso modo di Cristo. Benigni invece revisiona e riumanizza questo autentico gigante della cristianità in un giovane impacciato e non sempre all’altezza di capire il messaggio cristiano. Una soluzione a prima vista squilibrata e soprendente. Che lui però alla fine sa gestire con quel suo elettrizzante incedere verbale. Una cosa è parsa strana a molti. Perché fare emergere questo lato umano di Pietro invece di quello tradizionalmente mistico? Quello in Palestina accanto a Gesù, e poi quello avventuroso e ricco di fascino e di mistero a Roma? Secondo noi sarebbe stato molto più bello ed avvincente se il grande Roberto lo avesse calato nel clima di Quo Vadis, ricordate, lo struggente film di Melvin LeRoy del 1951, con quattro star del calibro di Robert Taylor, Deborah Kerr, Leo Genn e Peter Ustinov. Nel film – un colossal che ognuno di noi dovrebbe rivedere per trarne il senso della storia e della leggenda di Roma e della futura Italia – è proprio Pietro (nel film interpretato da Aldo Silvani) ad unire in matrimonio il centurione Marco Vinicio, appena convertitosi, con Licia. Un segmento straordinario, fortissimo della storia di Roma ma anche del Cristianesimo, che segna il sacrificio dei martiri ma anche la fine di Nerone, l’incendiario di Roma. Si può immaginare quale suggestione avrebbe suscitato Benigni se avesse rimarcato il clima in cui avvenne il sacrificio di Pietro? Invece di perdersi in un frettoloso finale? Il dubbio è che Roberto si sia avventurato in una materia non banalizzabile, seppur genialmente come sa fare lui.

 

Meloni, Lollo e Giuli accendono il Colosseo. Ma per osannare una cucina che non esiste

Certo. L’Unesco l’ha riconosciuta come Patrimonio dell’Umanità. Un riconoscimento in apparenza prestigioso. Ma con due forti limiti. Il primo, per noi meno interessante ma su cui tutti dovremmo riflettere, è la limitatezza dell’Unesco. E’ pressata dai singoli Stati, influenzabile da dinamiche politiche e interessi nazionali, limitabile da ritardi nei finanziamenti. L’altro è più clamoroso. Perché formalmente non è mai esistita e non esiste una cucina italiana. Nel senso che ci vengono riconosciute cucine locali o regionali, ma non quella nazionale. L’Italia è l’unico paese al mondo che ogni circa 50 km cambia il dialetto e cambiano i sapori della cucina. Per questo ha il patrimonio culinario più vario e ricco della cucina mondiale, fino a farci dire che in Italia esistono una cinquantina di cucine. Storia e influenze culturali diverse che hanno dato origine ad una varietà culinaria eccezionalmente ricca e variegata. Così – riassume lo scrittore Giorgio Boratto – ogni regione e città, oltre che per i suoi costumi e opere d’arte, si caratterizza con una propria identità gastronomica. In sostanza, la cucina italiana è un insieme di tante specificità unite da una identità comune del luogo. Cucina italiana è quindi generalizzabile, ma l’Unesco, un presidente del Consiglio e due ministri avrebbero dovuto sottolinearlo, esaltando le regionalità della nostra cucina, unite da un’identità nazionale. Soprattutto il ministro Lollobrigida ospite di Cinque Minuti. Quando si va da Vespa davanti a 5 milioni di telespettatori non ci si può limitare a quattro amenità da bar degli amici

 

Anna Maria Bernini ed “i poveri comunisti”

E’ il Ministro per l’Università e la Ricerca. Ma in quella espressione è stata poco ministra,  molto qualunquista e del tutto inadeguata al suo ruolo. Lei l’ha pronunciata nei confronti degli studenti che la contestavano per il filtro semestrale, farraginoso inutile e dannoso, a Medicina. La Bernini poteva zittire, lasciare che la protesta svaporasse, o imitare il grande stile di Berlusconi che, contro il vociare dei contestatori diceva sempre “Lasciatemi parlare prima di protestare”. Invece, dall’indimenticato Silvio la Bernini ha mutuato solo quel “Siete sempre dei poveri comunisti”. Espressione infelice di Silvio, che lui però usava saltellando, sorridendo, e pronunciando “cumunisti”  nel suo divertente “milanes”. La Bernini l’ha invece detta con sarcasmo, con quella sua espressione plastificata, con toni irritanti. E con l’applauso del popolo di destra. E già, perché si era all’appuntamento di Atreju, il progonista de “La Storia Infinita”  scelto dalla signora Meloni nel 1998 come luogo delle manifestazioni giovanili della destra. Non si è mai capito perché. Nelle intenzioni del nostro Presidente, Atreju è il simbolo della sfida contro tutto: la solitudine, la paura, il dubbio, un mondo in declino, e contro il Nulla. Ma lui, nel romanzo di Ende e nel film, è un personaggio apolitico e universale. E quindi resta una scelta impropria quella di Giorgia di associarlo al mondo conservatore che, lo dicono il nome e la storia, vuole conservare frenando, e non certo innovare progredendo. Perché il 30% degli italiani resta compatto nel consenso alla Meloni? Provate a chiederlo a psichiatri e psicanalisti. Loro dicono perché prevale il terzo strato del cervello, quello rettiliano degli istinti come fame, sete e sesso. Sto sorridendo mentre lo scrivo. Perché sarà pure una teoria bioscientifica, ma è anche un pò balzana e comica. Lascio a voi il giudizio.