Martedì 18 ottobre, alle 20, sarà presentato presso Palazzo Fruscione il nuovo libro di Andrea Manzi “Insonnia” (Castelvecchi Editore). L’appuntamento è nel quadro degli Incontri di Corpo Novecento a cura di Alfonso Amendola e Pasquale De Cristofaro. Del volume parlerà Rino Mele, dopo un’azione performativa (con mimi e fisarmonica) ideata dal regista e attore Pasquale de Cristofaro, che leggerà anche alcuni brani del testo.
di Salvatore Marrazzo
(…) “L’obiezione, a pensarci bene, nasce dal disagio, ma forse non è insormontabile, perché quando ricordo, non solo ricordo ma rivivo, seleziono, monto le scene – vivo e giro insieme, cioè annodandomi al passato e svincolandomene in un futuro ipotetico; le rimonto le mie scene, secondo spazi e tempi che mi appartengono e che non sono dissimili da quelli cinematografici. Non ricreo, beninteso, la realtà che già esiste, anzi è esistita e, per quanto mi riguarda, è sfociata nel prodotto umanoide che sono (e non vorrei più essere), ma divento autore di una nuova realtà, rendendo elastiche le leggi dello spazio e del tempo e predisponendo l’opera per l’unico spettatore disponibile, che sono pur sempre e solo IO. Nel pronome personale che questa mattina mi appartiene c’è proprio tutto: l’attore, il regista e lo spettatore, alleati per un’opera nient’affatto generica o accidentale. La mia vita”.
Più che una dichiarazione di poetica, sfogliando e rileggendo Pudovkin, grande maestro e teorico dell’avanguardia russa avvinta alla cinematografia degli inizi del secolo scorso, quella di Andrea Manzi è una nota disinibita, sottile, forse innocua ma di sicuro pregnante di una scrittura rammemorante e ipnotica che si regge non tanto sul ricordo come potrebbe apparire, ma su una struttura rigorosa e innalzata, razionalmente composta e trattenuta. Non un flusso di coscienza, seppur ordinato nei paralizzanti e dovuti schemi della semplificazione e dell’assemblaggio, ma un equilibrio di poesia e prosa nella migliore tradizione della sperimentazione contemporanea, che è poi la tradizione classica se già gli antichi vedevano nell’arte poetica una scrittura che univa prosa e verso in un doppio movimento di musicalità e silenzio, disponendosi, quindi, all’ascolto e alla comprensione. Osare, scriveva Kierkegaard, è perdere momentaneamente l’equilibrio. Non osare è perdersi. Pertanto è la logica della notte che si vive in questo libro di luce. È la logica della necessità. È la logica del linguaggio che non ha sensatezza ma che si sforza di produrne. È la logica del paradosso, del sentire incondizionato, assoluto, totale. È la logica del tempo dilatato e rappreso. Del tempo respirato. Del tempo toccato direbbe Jean-Luc Nancy. E il tutto in una spazialità eccedente, oscura, teatrale, assurda. Etica? “Il mio dolore, è un tuo dovere/vivo nei bassifondi l’allegoria di Milton/raggranello l’immortalità/senza orizzonti pacificati (…)”. Manzi, allora, mostra, rende in presenza, invoca una materialità di scena, illumina un margine, un’infanzia larvale, un conflitto, una menzogna, un’avventatezza: “(…) l’angoscia sale nelle figure rifratte/dell’imbrunire traumatico/il doppio si nasconde e duole/un fascio penzolante lo rischiara/appeso all’oscurità/a schegge d’infanzia – un balenio”.
Se Blanchot scriveva che ad ascoltare “l’epoca” essa ti dice di non parlare, ma di tacere in suo nome, si può parlare della scrittura di Andrea Manzi come di una forma di silenzio? O, addirittura, come di una scrittura del disastro? O della calamità pandemica? Una scrittura come dimensione salvifica? Non è vero, forse, che questi versi o parole nascono in un momento dove lo stigma del castigo sembrava pervadere l’umanità intera? Dove l’angoscia regnava sovrana a ricordarci della nostra finitezza e impotenza? Si potrebbe dire, ancora, che si tratta di parole interne? O affermare che si ha a che fare con ciò che dentro respira di un io smisurato? Che si tratti di fatti personali? In breve, un fare terapeutico? Niente di tutto questo nella maniera più assoluta. Soltanto il semplice quanto umile tentativo di una scrittura. Una scrittura, quindi, che ha ancora da dire? E dire che cosa se non la ripetizione e il tacere. E mi piace scoprire come per Blanchot lo scrittore era l’insonne di giorno, mentre qui si ha a che fare con la notte. Come a dire che quando c’è la scrittura c’è una reiterazione felice e un Libro. Un Libro si dovrebbe scrivere sempre con la maiuscola, perché un Libro è sempre tutti i libri. E la dove c’è insonnia, – apprensione, memoria, desolazione, abbandono – c’è pensiero, c’è linguaggio, c’è filosofia, c’è sogno. Questo di Manzi è un libro vero. Un libro che si legge tutto d’un fiato. Un libro che cattura e sgomenta. Un libro interrogante. E come tutti i libri che domandano, un’opera densa di figure familiari, dubbie, incerte, avventate. Figure evanescenti e inafferrabili. Ci sono invisibilità e desideri ascetici. Sudore e lacrime. Un libro, infine, dal silenzio inaggirabile. Qui, prendo in prestito una frase di Jabès, il linguaggio perde ogni autorità. Resta solo ciò che è nella voce. Una voce che si ascolta nella lettura. Una voce silente e senza luogo. Il Libro, questo libro, allora, ha spazio, dove non vi sono né luoghi né voci. Solo vento ed erranza. “(…) sale la nostalgia dei filosofi/e l’attesa di albe profetiche (…)”. Alla fine, l’inizio. Che l’indicibile si possa sempre dire. E che nella finitezza infinita di ogni opera poetica si apra l’atto della parola come destino del mondo, teatro di suoni, veglie, parole perdute e ritrovate.
Andrea Manzi, Insonnia, Castelvecchi, pagg. 100