La prima volta che ho visto un quadro di Mario Carotenuto avevo diciassette anni, lui dieci più di me. Abbiamo vissuto insieme ben sessantotto anni, un’amicizia durante la quale non è avvenuto mai uno screzio, basata su di una stima reciproca e rispetto, in particolare delle nostre rispettive sfere private, un percorso conclusosi, solo fisicamente, ieri, fatto di convergenze di vedute, analoghi obiettivi, passioni e interessi condivisi. Iniziai a frequentare lo studio di Mario, senza mai pensare di toccare una sola matita o un pennello, poiché la sua bravura, la sua “mano”, il suo segno mi inibivano, ma ho avuto la fortuna di essere ammesso alla nascita di qualche opera, cosa che non permetteva ad alcuno, emozione profonda che ho provato, in seguito, nello studio di Mino Maccari. Oltre che nel suo luogo di ricerca e lavoro, trascorrevo lunghi pomeriggi in casa Carotenuto all’Oliviero, poiché a me è sempre piaciuto il jazz, lo swing, in particolare, e il fratello Bebè, nonché il padre Amedeo, erano raffinati interpreti e pionieri del genere in città. Di lì, con Mario che, oltre ad essere un pittore vero, era un raffinato latinista incoronato col Certamen Horatianum, nonchè eccelso storico dell’ arte, sbarcai alla mia prima Biennale di Venezia, negli anni ’60, ove mi fece calare nel mondo nuovo della Pop Art. La nostra vita è andata sempre in parallelo. Il ricordo va a Minori, quando abbiamo acquistato casa lì, in costiera, vivendo delle stagioni splendide. Da una coppia si divenne un trio. Infatti, con il ritorno di Alfonso Gatto in città, il nostro rapporto che era già forte è stato riconfermato anche nel lavoro. Ero impiegato alla galleria l’Incontro di Feliciano Granati insieme a Mario che ne era il consulente artistico, quindi, quando Gatto decise che dovessi aprire una galleria e nacque Il Catalogo, Mario mi ha sempre consigliato e supportato in ogni scelta e decisione, con Gatto eravamo in tre, dopo quell’8 marzo del ’76 in due. Nei quarantanove anni di vita de’ Il Catalogo, Mario ha esposto più di trenta volte tra le sue mura, ritenendo questo spazio suo punto di riferimento, suo porto, suo rifugio: non c’era giorno che non scendesse dallo studio e passasse qui in galleria per informarsi sulla programmazione, sulle scelte, o solo per ricordare. Incontro, che negli ultimi tempi, quando le uscite sono andate via via diradandosi è avvenuto per telefono, come in occasione della sua ultima mostra dedicata agli Autoritratti, ospitata nella sala San Tommaso. Ho dovuto illustrare le ragioni della mia assenza al vernissage, mancanza che lo aveva oltre modo meravigliato e lui, forse le sue ultime parole tra noi, sono state una amara sentenza: “Lelio, non dispiacerti. Salerno è una città senza memoria”. Oggi, sull’affiorare insistente, sottile e nostalgico di emozioni, colori, profumi, vivificati dall’ascolto di una specie di racconto, un filo di storia lungo, intenso “pieno”, oggi reso disperato, e insostenibile, ripenso ai viaggi, ai tanti artisti incontrati, alle biennali, alle sue mostre milanesi con Gatto, quelle alla galleria romana de’ La Cassapanca, alla Santa Croce di Firenze, successi e sconfitte affrontati con grande spirito d’amicizia. Con la scomparsa di Mario, dopo la perdita di Gatto, ho la certezza di essere un superstite. Cercherò, comunque, di non arrendermi e, nei limiti del possibile, di portare avanti la sua passione, che è la mia, per la bella pittura.
Lelio Schiavone