di Raffaella D’Andrea
Donatello Ciao, anima del negozio Decorbird ,non è soltanto un ceramista: è un uomo che attraverso la sua arte ha scelto di dare dignità alla propria vita e speranza a chi la speranza sembra averla perduta. Laureato in Storia dell’Arte Medievale, dopo mille lavori si è reinventato artigiano, trasformando un sogno in un laboratorio che è diventato non solo bottega, ma anche spazio sociale.
Donatello, raccontaci com’è nato questo sogno.
«Sette anni fa ho aperto Decorbird. Non nasco come ceramista, ma sentivo il bisogno di riscattarmi con un lavoro che mi desse dignità. Volevo creare qualcosa che non gravasse sulla mia persona, ma che mi facesse stare bene. È nato tutto quasi per caso: un piatto dipinto, una foto messa su Facebook, gli amici che mi hanno incoraggiato. Così ho deciso di affittare un locale, aprire la partita IVA e buttarmi in questa avventura. Volevo raccontare qualcosa non con la mia faccia, perché non amo stare al centro dell’attenzione, ma attraverso le cose che creo. Da lì è nato Decorbird, che per me è poesia trasformata in ceramica.
L’uccellino, infatti, voleva raccontare la mia storia al posto mio. In questi sette anni la bottega è diventata un piccolo punto di riferimento, lì dentro ho incontrato tante persone che avevano bisogno di una speranza, e ogni mio oggetto porta con sé un messaggio di positività. Ho scelto di aprire il negozio nel Rione Fornelle, in via Porta Catena, in un angolo un po’ dimenticato, quasi spento. Volevo che la mia luce desse valore a quel posto, dove ormai tante serrande erano abbassate. La mia idea, non era solo vendere ceramiche, era raccontare poesia attraverso la materia. Ho sempre creduto che l’arte non serva solo a decorare, ma a dare speranza. Nel mio laboratorio sono passati emarginati, ragazzi sbandati, persone che avevano perso la strada: qui hanno trovato ascolto, accoglienza, un messaggio di luce. Le mie creazioni vogliono essere proprio questo: piccoli semi di speranza».
Quindi non è stato casuale che hai aperto la tua bottega proprio nel Rione Fornelle, un quartiere non centrale di Salerno?
«No proprio per nulla. Ho voluto dare vita a un posto che stava morendo. La mia bottega misura appena undici metri quadri, ma lì dentro ho voluto accendere una luce in una strada quasi spenta, tra saracinesche chiuse e silenzio. In via Porta Catena, oggi, resistiamo solo io e un macellaio, che però a gennaio andrà via. Tutto intorno, venti serrande abbassate. Io ho pensato che l’arte potesse essere un piccolo atto di resistenza: non solo commercio, ma presidio sociale, un modo per dire che Salerno merita di vivere».
Negli ultimi anni, però, sono arrivate difficoltà importanti…
«Sì, negli ultimi due anni la situazione è precipitata. Prima la chiusura del Giardino della Minerva e dei Muri d’Autore, che portavano turisti nella mia zona. Poi il Covid, che ha cambiato le abitudini: tutti comprano online, mentre io sono solo, con due mani che non possono reggere negozio, commissioni e vendita a distanza. Ho provato ad assumere due volte ragazzi con contratti di tirocinio, ma mantenerli era impossibile. Lavoro di notte in un bar pur di pagare le tasse. È due anni che vivo solo per questo. Oggi la mia produzione si è ridotta, un piatto decorato può costare 25-30 euro, una calamita fatta a mano – che mi porta via anche 7-8 ore di lavoro tra modellatura e cottura – la vendo a 4 euro. Anche le confezioni che faccio sono ecologiche: carta da pane e corda, mai plastica. Ma poi trovi le calamite in resina a un euro e mezzo, prodotte in serie, e capisci bene la difficoltà. A Salerno, inoltre, il turismo è cambiato. Vengono ragazzi che cercano il “contenuto” da postare su Instagram o TikTok, che passano e vanno in Costiera. Non restano in città, non mangiano nei ristoranti, comprano delivery e riempiono i B&B di scatole di cartone. La città è diventata solo un punto di transito, senza un pacchetto turistico strutturato. Manca persino la segnaletica: i turisti scendono dalla nave e non trovano nemmeno un cartello che indichi la direzione per il centro storico. E così, anche se la mia bottega è bella – sembra quasi un negozio francese, dicono i clienti – e piace ai visitatori, non sopravvive a tutto questo. E qui nasce la mia denuncia: perché chi crea a mano, davanti agli occhi del cliente, deve essere tassato al 22% come un qualsiasi prodotto industriale? Perché esistono agevolazioni per altri settori, e non per l’artigianato artistico, che è il vero cuore del Made in Italy? Io offro non solo un oggetto, ma un incontro umano, una storia, un pezzo di bellezza che resta. Ma questo valore non viene riconosciuto».
Nonostante tutto, dalla tua denuncia pubblica è nata anche una catena di solidarietà.
«Sì, e questo è stato sorprendente. Non amo stare sotto i riflettori, ma la mia voce ha avuto risonanza. Giornalisti, televisioni, associazioni come la CNA si sono interessati, proponendomi di entrare in una rete di vendita di nicchia. Ma la cosa più bella è stata riscoprire l’umanità, persone che mi hanno sostenuto, che sono venute in bottega, che mi hanno dimostrato affetto. Ho capito che la mia piccola lotta non era solo mia. Il mio grido non è solo per me: è per Salerno. Questa città non può essere solo un punto di passaggio per chi va in Costiera. Ha un patrimonio storico, artistico e umano che va valorizzato. Io ho acceso una piccola luce, ma Salerno merita di brillare davvero».
La storia di Donatello Ciao non è solo quella di un artigiano in difficoltà: è il simbolo di una città che rischia di spegnersi e che chiede di essere ascoltata. Salerno merita di vivere, di riscoprirsi e di brillare. E forse la rinascita può partire proprio da qui, da un piccolo laboratorio che con coraggio trasforma la fragilità in speranza.





