23 novembre 1980: la Campania e la Basilicata furono messe in ginocchio da un fortissimo terremoto. Era un normale giorno di un autunno freddo e silenzioso. I salernitani erano nelle proprie abitazioni, pronti a pensare alla cena dinnanzi alle solite trasmissioni televisive domenicali quando le lancette degli orologi si fermarono alle 19:34. Per 90 secondi la terra tremò e in quell’ondeggiare incontrollabile le case vennero giù, sbriciolate come una fetta biscottata finita sotto ad un piede. Un minuto e mezzo e poi il nulla. Con un’intensità che superò i 10 gradi della scala Mercalli e una magnitudo di 6,9 gradi della scala Richter e con epicentro nel comune di Conza della Campania, l’evento sismico causò centinaia di morti (2.914), molti i feriti (8.848) e infiniti sfollati (280.000). Bilanci duri, difficili da digerire. La macchina dei soccorsi partì con difficoltà per mancanza di organizzazione e la lentezza con la quale giunsero i primi aiuti innescò, in seguito, una serie di polemiche. Al principio del 1981 cominciarono ad essere montate le prime case in legno per i senzatetto, proprio a partire da Laviano, il paese in cui era morta un quinto della popolazione. Quel cataclisma per la nostra terra significò morte, distruzione e continui guai. È infatti opinione diffusa che il vero dramma fu quello che ne seguì: l’Italia si dimostrò un Paese sì solidale, ma anche molto sprecone e disorganizzato. E, si sa, dove lo Stato non riesce bene a gestire, subentrano i tentacoli della malavita. Ma, oltre le polemiche, le macerie del terremoto hanno continuato a pesare sulle coscienze dei salernitani, nonostante il passare del tempo che proverbialmente tende a sanare i lembi stracciati di pelle. Sono trascorsi tanti anni da quella calamità di morte e disperazione e ad oggi non sembra che un lontano ricordo per chi l’ha vissuto o una pagina di storia triste per chi è venuto dopo, ma che comunque continua a inumidire gli occhi di quanti, quella sera d’autunno, persero una madre, un padre, un figlio, un fratello, un amico.
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