Dopo molte repliche sold out in tutta Italia, in programma stasera al Teatro Charlot di Pellezzano lo spettacolo teatrale di Domenico Iannacone “Che ci faccio qui – in scena” che è estensione e, in un certo senso, la continuazione dei suoi programmi televisivi su Rai Tre come “I dieci comandamenti” e “Che ci faccio qui” ma con un punto di vista intimo. Nella sua versione teatrale “Che ci faccio qui – in scena”, il giornalista molisano esce dalla quarta parete, prende per mano lo spettatore e lo accompagna nei luoghi che ha attraversato in un viaggio tra gli invisibili, gli ultimi della società ma anche i geni isolati e inconsapevoli maestri di vita; emarginati ma non per forza sconfitti, quasi sempre persone baluardi di dignità e coerenza. La data di stasera (ore 20.30) è realizzata da DLive Media, diretta da Roberto Vargiu, in partnership con la Fondazione Monte Pruno e in collaborazione con il Comune di Pellezzano e il Teatro Charlot il cui palcoscenico diviene il luogo fisico dove le storie di disagi abitativi, ingiustizie sociali e crimini ambientali riprendono forma e voce, tornando a rivendicare il diritto di essere narrate, sempre con garbo e passione, e senza sensazionalismi.
In che modo le tue inchieste di successo, i tuoi documentari televisivi diventano teatro?
Questi racconti afferiscono a istanze che emergono direttamente dalla società. Quello che faccio da anni è attraversare luoghi e incontrare persone che mi chiedono di rivendicare i loro diritti e raccontare le loro storie. Penso che il teatro rappresenti un’amplificazione della possibilità di farlo, un modo per universalizzare, ancor di più, questa richiesta. Dunque, nascono dall’esigenza di un racconto più sedimentato, più legato anche alle mie emozioni che vengono messe sul palco, uscendo dalla parete virtuale, e diventano corpo, mettendosi a nudo, senza la mediazione della televisione. Ho un rapporto con il pubblico molto profondo che in teatro si amplifica e questo mi dà una forza notevole anche rispetto al mio lavoro televisivo.
A riguardo, i tuoi programmi televisivi sono girati senza la presenza del pubblico in campo e i personaggi delle tue storie sono i protagonisti della scena. Anche se il focus rimane sulle storie, in teatro sei, giocoforza, al centro del palco. Quel è il rapporto con il pubblico in questa nuova dimensione del racconto?
Sul palcoscenico avverto le reazioni di chi mi è di fronte, ho la possibilità di sentire i respiri e percepire le emozioni. Stringo una sorta di patto con il pubblico che rompe le distanze ed apre ad un racconto in una modalità diversa, a tratti inaspettata; anche attraverso gli odori, faccio una mappatura delle storie in una dimensione autentica. A teatro il pubblico si ritrova come in una piazza, la vecchia agorà che prevedeva il confronto collettivo, sempre più necessario perché aiuta a curare le ferite della società.
In questo modo, il teatro di narrazione diventa anche teatro civile in grado di ricucire la mappa dei bisogni collettivi, dei diritti disattesi, delle ingiustizie e delle verità nascoste. Quanto è forte il potere delle parole e il racconto orale, nell’Era della spettacolarizzazione dell’informazione e mediatizzazione della memoria?
Un potere immenso perché la parola è significato. Quando si scalfisce il rapporto semantico del racconto orale, in un approccio privo di concentrazione, spesso a causa delle continue distrazioni della quotidianità, allora la parola è vuota. Quando invece la parola ritorna a essere centrale nella vita, diventa significazione, va in profondità e lascia il segno. Parafrasando un verso bellissimo di Mario Luzi “vola alta, parola, cresci in profondità” è l’idea essenziale della parola in una dimensione che va in altezza e in profondità al tempo stesso.
Dopo un periodo di fermo, in primavera è atteso il tuo ritorno in tv. Quanto è faticoso lavorare a un genere di televisione, e adesso di teatro, che porta gli ultimi in prima serata, sempre con garbo e passione, e senza sensazionalismi?
Questa è sempre stata la mia narrazione in tv e adesso in teatro. Il mio unico modo di raccontare il mondo e la società. Sono fotografie senza filtri né elementi che possono essere manipolati. I miei attraversamenti sono onesti ed ho bisogno di trovare e perseguire questa dimensione.
DLive Media, che stasera ospita il tuo spettacolo all’interno del teatro comunale di Pellezzano, è un progetto culturale che racchiude elementi legati al mondo della Comunicazione, a partire da quella giornalistica. In una recente intervista, hai dichiarato: “I giornalisti sono come dei medici che devono curare le ferite della società.” In che modo, oggi, i giornalisti possono assolvere a questo compito?
I giornalisti devono cominciare a uscire dalle redazioni, dai talk show e raccontare il mondo, toccare con mano ciò che accade fuori dagli studi televisivi. Quella del giornalismo è una missione che si fa sul campo, non al chiuso, perché è un altro racconto. E soprattutto è fondamentale mantenere la bussola dell’oggettività che in questo momento è un po’ vacillante.
Vito Leso