La Pastena che perse il suo Pastore nella narrazione di chi lo visse. Nella lunga estate del 43 don Felice, il prete di Pastena, fu una figura di riferimento per la popolazione del territorio orientale della città. Ligio alla disposizione del suo vescovo Monterisi di non allontanarsi dal proprio servizio agli ultimi, non lasciò la sua parrocchia fino a morire nel crollo della canonica, nel corso dello sbarco anglo-americano. Riccardo Rampolla nel suo libro scrisse martire di obbedienza, un’enunciazione doverosa e non retorica. A differenza di tanti Don Felice non scappò, non svesti la sua “divisa” e rispettò gli “ordini” ricevuti dal suo superiore fino all’ultimo. Egli nacque visse e mori nella periferia agricola cittadina. Nato nel 1909 in via Casa Ventura a Ogliara, fu quarto figlio di famiglia numerosa e restò orfano di padre quando aveva solo pochi anni. Presto entrò a studiare con diligenza nel seminario diocesano, dove fu cresimato, scegliendosi come padrino don Aniello Vicinanza, all’epoca parroco a Battipaglia. Il 30 luglio 1933, fu tra i primi sacerdoti che furono ordinati nel seminario regionale Pio XI appena inaugurato. Dopo qualche anno di esperienza quale parroco a Bracigliano approdò nel 1939 a Pastena, parroco della parrocchia di Santa Margherita. Seguendo i precisi dettami ricevuti del suo vescovo Monterisi, uno dei suoi primi impegni fu di riorganizzare uomini e giovani nell’Azione Cattolica. Insegnò religione alle ultime tre classi delle elementari del rione nella scuola in via Rocco Cocchia. Oltre alle incombenze pastorali, con l’inizio della seconda guerra mondiale tanti parrocchiani ricorsori a lui per farsi leggere le lettere, di figli e mariti che arrivavano dai vari fronti, e scrivere loro risposte. Tanti erano gli analfabeti allora a Pastena, una cosa risaputa anche dal postino che era solito lasciare diverse missive in canonica, risparmiandosi giri tra casali e poderi. Dopo i rovesci subiti in africa settentrionale, con la posta militare iniziarono a giungere, anche le cartoline da paesi di prigionia più disparate del globo, per cui mamma, spose, figli dei militari presi prigionieri dagli anglo-americani, anche se non analfabeti, facevano ricorso al prete per avere lumi in quale luogo i loro familiari erano stati internati. Nel periodo dei bombardamenti fu faro per tutti i parrocchiani, perché la sua zona fu interessata da uno sfollamento molto particolare. Dopo il 21 giugno ogni famiglia dei tanti casali sparsi, aveva allontanato gli anziani, le donne e i bambini ricoverandoli presso conoscenti o parenti a Giovi, Matierno, Ogliara, San Mango. Gli adulti per mantenere gli impegni da agricoltori restarono a presidio delle case e dei poderi, continuando i lavori nei campi di giorno e quando possibile, raggiungendo sul far sera le famiglie, almeno per stare uniti la notte. Allo spuntare del nuovo giorno facevano il percorso inverso, ritornando al lavoro negli orti e nei campi. Nelle notti in cui lasciavano le case incustodite, le affidavano alla sorveglianza dei vicini, alternandosi reciprocamente nella custodia di cose e animali, una sorta di mutuo soccorso di buon vicinato. La chiesa collocata sull’asse mare-monti divenne luogo nevralgico perché tutti quelli che lasciavano la linea di costa, al passaggio dalla chiesa informavano il prete su chi e quanti parrocchiani erano rimasti a vigilare per la notte, giù al lido o a Pastena o dietro la cupa. Siccome anche allora capitò che nelle case ci fossero vecchi intrasportabili allettati, i parenti lasciandoli in casa, comunicavano al prete che nel caso non si vedevano riscendere al mattino dopo, il prete mandasse qualcuno a rifocillare e assistere quell’anziano isolato e chiuso in casa. In quel periodo di tregenda don Felice conosceva i bisogni spirituali e materiali dei suoi parrocchiani. I Pastenesi in lui riponevano grande fiducia e sicurezza. Lo stratificarsi di questo sedime di relazioni impedì al prete di rifugiarsi la notte a casa della mamma a Ogliara. Negli anni diversi testimoni che percorsero in quei frangenti gli stessi sentieri verso Matierno e Ogliara ebbero modo di ricordarlo, “Don Felice non volle lasciare la chiesa neppure per una notte” (da Santa Margherita a Ogliara passando a piedi tra i poderi di Giovi avrebbe impiegato poco più del tempo che oggi s’impiega in auto). A chi lo invitava ad allontanarsi almeno di notte lui rispondeva: “Se qualche malato ha bisogno del prete?” Tutti i suoi parrocchiani sapevano che lui dormiva in canonica. Pur di non lasciarlo solo di notte si alternavano in canonica i ragazzi di Azione Cattolica. Quella di riunirsi a dormire in case o stalle ritenute più sicure o più distanti da strade o ferrovia fu un’attenzione di sicurezza utilizzata da molti per esorcizzare la paura dei bombardamenti notturni.
Giuseppe MdL Nappo
Gruppo Scuola Maestri
del Lavoro del Consolato
provinciale di Salerno