Domani sera il sipario del Teatro Verdi si leverà alle ore 20 per il pianista Emilio Aversano che proporrà al pubblico salernitano i suoi autori del cuore Schubert, Beethoven, Scarlatti e Chopin
Di Olga Chieffi
Ritorna domani, al teatro Verdi di Salerno, Emilio Aversano, dopo sei anni da quella maratona portata a termine con la Sofia Festival Orchestra, diretta dal maestro gallese Jonathan Mann, per un rècital composto dai suoi prediletti cavalli di battaglia che, nelle sue incursioni cittadine abbiamo già ampiamente ascoltato. La sua sfida, nei confronti di se stesso, del pianoforte e del pubblico, sarà proprio quella di lasciar intuire come possano essere maturate e, naturalmente, diversamente lette ed interpetrate nel tempo, queste pagine. In questa serata di spasmodica attesa della platea cittadina, che intende riabbracciare il suo pianista, anche da neo-docente del Martucci, il conforto alla scelta del programma ci viene da uno dei capiscuola del jazz. Quando la musica di Count Basie raggiunse l’apice del successo, dopo il 1950, Lester Young – il sax tenore, il solista più importante della vecchia orchestra di Basie, colui che poniamo all’inizio del jazz contemporaneo – fu invitato a suonare con un gruppo di musicisti che un tempo avevano fatto parte di quell’orchestra, per far rivivere in un album lo stile del decennio 1930-1940 declinò l’invito. “…Non posso farlo – disse Lester – non suono più così. Suono in un altro modo, vivo in un altro modo. Ora è più tardi. Questo avveniva allora. Noi ci modifichiamo, ci muoviamo, guardiamo oltre…”. Riflettori accesi, quindi, al massimo cittadino sul gran coda, domani, alle ore 20, per Emilio Aversano, che inaugurerà la sua performance con due improvvisi di Franz Schubert, il terzo e il quarto dell’ op.90. Il primo è un Andante in Sol Bemolle maggiore, un grande Lied strumentale, costruito sullo schema della melodia accompagnata. Ma ciò che Schubert riesce a trarre da questo frusto canovaccio è di un’originalità e di una bellezza meravigliose. La melodia, lunga, memorabile, inizia in pianissimo, in un tono di intimo raccoglimento, e si svolge in un intensificarsi progressivo del clima emotivo, conducendo ad una parte centrale più fremente e oscura; la conclusione, dopo uno sviluppo “ad arco” del più puro romanticismo, riconduce alla calma estatica delle battute iniziali. Il secondo Improptu, è un Allegretto, in La bemolle maggiore, che presenta inizialmente i tratti di uno Scherzo. Agli arpeggi agili, leggeri e nervosi, alle frasi brevi e spezzate della parte iniziale, si contrappone, nella sezione centrale – esplicitamente denominata Trio – una melodia accompagnata in accordi ribattuti, calda e appassionata; la pagina si conclude, poi, con la ripresa, quasi invariata, della parte iniziale. Ed ecco l’amato Beethoven, con la Sonata in re minore op. 31 n. 2 (La tempesta), che secondo l’ allievo e amico Anton Schindler, quando gli venne chiesto quale fosse il significato di questa pagina, l’autore pare abbia risposto: «Leggete La tempesta di Shakespeare». Un’ottima risposta, proprio perché è vaga e non è di grande aiuto per chi vuole assolutamente trovare un “significato” extramusicale a questa Sonata. La tonalità è la stessa di quella che Mozart aveva usato nel Concerto per pianoforte e orchestra K 466, una delle sue opere più oscure e demoniache, e che Beethoven impiegò molto raramente, e solo in composizioni di particolare rilevanza, quali questa Sonata e la Nona Sinfonia. La sonata, composta tra il 1801 e il 1802, gioca molto sui contrasti e contiene tutti i caratteri dell’opera di Beethoven; all’esecutore presenta numerose difficoltà, quali l’incrocio delle mani, l’accompagnamento in terze della sinistra e i ribattuti senza doppio scappamento (meccanismo che consente di evitare il ritorno completo del tasto). I contrasti sono immediatamente evidenti e caratterizzati dalla frequente alternanza di tratti lenti e veloci: l’arpeggio del Largo e l’inquietante Allegro. La ripresa espone frammentarie idee melodiche a tinte drammatiche, foriere di sconosciuti, prossimi accadimenti; tensione emotiva che tende a smorzarsi in una melodia semplice. L’allegretto finale, energico e ossessivo, è un arabesco di idee che, come in un inseguimento, si accavallano senza trovare requie. Czerny suppone che Beethoven abbia tratto ispirazione da un galoppante cavaliere passato sotto le sue finestre. Un allievo di Ludwig Van Beethoven racconta che un pomeriggio del 1804 il Maestro fosse rientrato dalla solita passeggiata nei pressi di Döbling canticchiando e borbottando qualcosa d’indecifrabile, una sorta di ribollio continuo e sommesso; giunto in casa, senza togliersi nemmeno il cappello, Beethoven si era diretto al pianoforte, sul quale era restato curvo un paio d’ore a cercare sui tasti l’idea di quel mormorio inarticolato: e quando, alzatosi, aveva sorpreso l’allievo seduto in un angolo, lo aveva spedito a casa senza tante scuse: “Oggi non c’è lezione, ho ancora molto da lavorare!”. Stava nascendo la Sonata per pianoforte op. 57 in Fa minore “Appassionata”. Qui Beethoven si abbandona completamente, la tempesta spazza incessantemente la pianura, è come una Fantasia, in cui tutte le forze si scatenano. Solo l’ascoltatore cosciente e riflessivo avverte anche qui la mano dominatrice, che si impone sull’infuriare selvaggio dei passaggi e sull’ampio arco delle melodie. In entrambi i movimenti estremi, tutti i temi sono in minore, con la sola eccezione di quello secondario del primo tempo, sviluppato dal tema principale. Dopo questa ossessione del tono minore, giunge splendida la solenne quiete del movimento centrale, le cui Variazioni dimostrano quanto possa essere ispirata una pura figurazione. Ma la maggiore meraviglia dell’opera è sempre l’Andante con moto in re bemolle, variazioni su un tema che non ebbe altri esemplari della sua specie, né prima né dopo, una creazione che, nonostante la sua efficacia spirituale, sgorga incomparabilmente e il cui segreto consiste nell’incredibile maestria con cui, dagli elementi primordiali dell’armonia, si sviluppa una vera “Forma”, la cui maestà si impone anche su tutte le sfuriate demoniache dei due tempi estremi. Un passo indietro con gli “essercizi” di Domenico Scarlatti: due sonate, la prima in mi maggiore K531 e la seconda in fa minore, K239, documento di un momento irripetibile della cultura europea del primo Settecento, per la maturità della tecnica strumentale e l’audacia del vocabolario armonico, legato in verità nei suoi momenti estremi alla pratica della doppia e tripla acciaccatura, propria della tecnica clavicembalistica, o a quel tipico stile preludiante, totalmente assai instabile, che si trova all’inizio della seconda sezione delle sonate. Conclusione affidata ai primi due Notturni dell’op.9 di Fryderyk Chopin, composti tra il 1829 e il 1831. Il primo, in Si bemolle minore, è in forma tripartita, con una sezione centrale che contrasta espressivamente con la prima e con la ripresa. Chopin ottiene il contrasto semplicemente eliminando l’ornamentazione e raddoppiando all’ottava la melodia che, in questo modo, diventa quasi statica. Il collegamento con la ripresa è realizzato tramite un interludio che rende la parte centrale assai più lunga delle estreme; la sezione conclusiva è costituita da una ripetizione molto abbreviata della prima, rendendo perfetto, in questo modo, l’equilibrio dell’insieme. Il secondo notturno, in Mi bemolle maggiore, si avvicina molto al modello fieldiano, una pagina a due temi non molto contrastanti fra loro: si potrebbe anzi dire che il secondo è la prosecuzione del primo, con la coda conclusiva che sembra germinare dal materiale musicale precedentemente esposto.