di Silvia Siniscalchi
Il rapporto natura-cultura, con tutte le sue complesse e controverse implicazioni, emerge ogni volta che le mani degli uomini modellano e imprimono una forma alla materia inerte. Il cibo è uno dei prodotti primordiali di questa opera incessante di trasformazione e si lega ai più ancestrali simboli dei primordi dell’umanità, di cui il fuoco è uno dei più potenti e remoti. Nessuno ha saputo spiegarlo meglio di Gaston Bachelard, grazie alla sua straordinaria sensibilità alla trama e al percorso dei simboli: il fuoco è più un essere sociale che un essere naturale; non si limita a cuocere, ma rende dorato il pane e materializza visivamente la festa degli uomini. Il forno, aggiunge Camporesi, collocato in una dimensione magica dalla mitologia contadina, per la quale rituali propiziatori presiedevano alla lievitazione e cottura del pane, è a sua volta il luogo dove avviene il passaggio dal crudo al cotto e che, come tutti i luoghi di passaggio (camini, porte…), risente potentemente della magia della lievitazione, raccordata – nel suo crescere – al salire in cielo e alla “crescita” del disco solare.
Gli ingredienti, l’impasto, la cottura della pizza rimandano dunque a una ritualità che non è semplicemente collegata al racconto della sua storia, perché ci riporta all’origine della civiltà umana. Ma, per tornare al nostro viaggio attraverso i secoli, dopo la scoperta del processo di lievitazione naturale dell’impasto (avvenuta intorno al II millennio A. C. in Egitto), si hanno diversi esempi di “proto pizze”, tra cui le schiacciate con verdure dell’Egitto faraonico e del vicino Oriente, le focaccine con formaggio (chiamate maza) della Grecia dei tempi di Platone e le focacce arricchite con varietà di condimenti della Roma repubblicana. Non a caso, in un poemetto dello Pseudo Virgilio, il Moretum, è descritta la preparazione di una focaccia condita con olio, sale, aglio ed erbe trite in tutto simile a quella che, verso la fine dell’Ottocento, sarebbe divenuto alimento ordinario degli abitanti dei vicoli napoletani. Ma il termine “pizza” compare per la prima volta solo nel IX secolo, in alcuni documenti campani che così definiscono una particolare forma di pane, simile alla focaccia o alla schiacciata. Successivamente, dal Rinascimento fino all’Artusi (1891), l’espressione è impiegata nella letteratura gastronomica italiana come sinonimo di “torta” o di “timballo”.
L’invenzione della vera e propria pizza è invece tradizionalmente associata all’intelligenza e all’abile creatività dei più umili ceti sociali della Napoli settecentesca: «è questo, in fondo, il fascino della storia alimentare: scoprire come gli uomini, con il lavoro e la fantasia, hanno cercato di trasformare i morsi della fame e le ansie della penuria in potenziali occasioni di piacere», come ricorda Montanari. In effetti è proprio durante il XVIII secolo che si verificano due eventi determinanti per l’evoluzione della pizza: l’invenzione dei mulini a cilindri d’acciaio e l’uso culinario del pomodoro (importato dalle Americhe, ma impiegato come alimento solo due secoli più tardi). Cucinata nei forni a legna, venduta da umili venditori, per lo più ambulanti, la pizza, nella Napoli del ‘700, si mangia come piatto unico e con le mani. Questa consuetudine – tuttora presente in alcune pizzerie prive di spazi interni – si riallaccia al denominatore comune di molte preparazioni alimentari dei paesi non occidentali (come quelli dell’Africa, del Medio ed Estremo Oriente), dove il pasto unico consumato con le mani, come accennato in precedenza, è utilizzato soventemente.
Nel passaggio dal XVIII al XIX secolo, le abitudini iniziano a cambiare: la nascita di numerosi locali, infatti, dimostra il diffondersi dell’usanza di consumare la pizza presso i forni in cui è preparata, oltre che a casa o per strada, quale segno del crescente successo di un piatto entrato stabilmente nelle abitudini alimentari dei napoletani. Un piatto che incontra tuttavia anche il favore dei nobili, suggellato dal “battesimo” della famiglia reale italiana. L’episodio in proposito è noto: nel 1889, il re Umberto I e la consorte regina Margherita, in visita a Napoli, esprimono il desiderio di assaggiare la pizza. Raffaele Esposito, pizzaiolo della pizzeria “Pietro e basta così”, ne offre tre, tra cui una pizza condita con pomodoro, aglio, mozzarella, basilico, olio d’oliva. La regina le apprezza talmente (soprattutto la pizza con la mozzarella) da voler ringraziare ed elogiare per iscritto l’artefice: il documento, a firma “devotissimo Galli Camillo, capo dei servizi di tavola della real casa”, ancora si conserva presso l’Antica Pizzeria Brandi. Come unica forma di ringraziamento possibile Esposito dedica la pizza alla mozzarella alla regina, ribattezzandola “Margherita”.
Nonostante l’esplicito apprezzamento tributatole dai Savoia, la pizza si diffonde più lentamente nelle altre regioni italiane: la vera e propria “conquista” della penisola si verifica nel periodo compreso tra gli inizi del Novecento e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Risultano in tal senso determinanti gli scambi culturali innescati dalla “grande emigrazione” (dal 1875 alla Prima guerra mondiale): è proprio in questo periodo, infatti, che si verifica il primo exploit della pizza, che si afferma come uno dei simboli della cucina italiana, probabilmente il più conosciuto e amato nel mondo. Tra il 1901 e il 1915 gli emigranti della sola Campania – quasi un milione – portano con sé la propria cultura linguistica, letteraria, poetica, musicale e alimentare. La pizza riesce così a esprimere al meglio il carattere partenopeo, guadagnando subito grande favore e affermandosi come alimento privilegiato. I motivi del suo successo sono analoghi a quelli attuali: è un cibo caratteristico, appetitoso e nutriente, economico per chi lavora, tanto da diventare, con la pasta, nel giro di pochi decenni, uno dei piatti più popolari negli Stati Uniti (e poi in Canada). Solo in America Latina non riscuote analogo successo, sia per ragioni climatiche sia per la difficile reperibilità degli ingredienti. Lo stesso accade tra le due guerre nei paesi dell’Europa, dove le comunità italiane sono meno numerose e le culture dei paesi ospitanti restano saldamente radicate nelle proprie tradizioni alimentari.
Dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, invece, la pizza conosce un ulteriore e ancora più grande exploit: la diffusione delle pizzerie in Italia, soprattutto sul finire degli anni Cinquanta, esplode infatti a cavallo del “boom economico”, periodo di benessere, consumi, grandi spostamenti e mescolanze di persone e culture, per effetto dell’emigrazione interna. Ma il successo della pizza è conquistato anche in una dimensione progressivamente internazionale, viaggiando insieme agli italiani trasferitisi all’estero o accogliendo gli stranieri giunti in Italia. Perdendo così in parte il connotato di “alimento povero”, si trasforma al contrario in un simbolo di svago e divertimento serali.
Dai primi anni Sessanta, l’avvento delle pizzerie diventa così un fenomeno di massa: si affermano nuove generazioni di pizze, legate all’interpretazione di piatti della tradizione gastronomica nazionale e delle cucine regionali, fino ad arrivare alle pizze al trancio e alle pizze industriali contemporanee.
La pizza come espressione di un’identità culturale di tipo pluralistico e interclassista
La storia, la varietà e la differenza degli ingredienti della pizza rimandano a un senso pluralistico del concetto di identità culturale che, dal punto di vista semantico, contiene di per sé una molteplicità di significati stratificati: senza una conoscenza approfondita dei secolari, complessi processi di scambio e sovrapposizioni tra le differenti tradizioni racchiuse in ciascuna “identità culturale”, questa pregnante definizione sarebbe puramente astratta.
La connessione tra identità culturale, alimentazione e territorio è emblematicamente rispecchiata dalla tradizione culinaria associata alla cosiddetta “dieta mediterranea” che, come sottolinea Giugliano, è «espressione di quella cultura del grano, dell’olio e del vino sotto cui accomunare quelle tradizioni culinarie derivanti direttamente o indirettamente dai popoli antichi del bacino mediterraneo» e che, da un punto di vista pratico, viene abitualmente utilizzata «per identificare le abitudini alimentari degli abitanti della Grecia, dell’Italia del Sud e di altre regioni mediterranee in cui l’olio d’oliva rappresenta la principale fonte alimentare di grassi». Infatti, la dieta mediterranea, lungi dal derivare da un’identità culturale e alimentare geograficamente determinata, è per l’appunto il risultato storico di molteplici scambi tra culture diverse, dell’incrocio e della sovrapposizione di tradizioni molto spesso non provenienti dall’area mediterranea, ma da altri continenti del mondo. Pertanto, ricorda Montanari, l’Asia e l’America «sono state, al pari dell’Africa e dell’Europa, essenziali nel definire i caratteri di quel sistema alimentare che siamo soliti definire “mediterraneo” e che d’altra parte costituisce solo uno dei tanti modi di mangiare che si ritrovano in tale ambito geografico». Il pluralismo culturale della dieta mediterranea è dunque emblematicamente espresso dalla varietà di ingredienti e interpretazioni dei diversi tipi di pizza che, anche da questo punto di vista, ben si presta a rappresentare le tradizioni alimentari di popolazioni differenti.
Ma, oltre a ciò, la pizza si presenta come c. È infatti presente fin dal principio sulle mense dei ricchi e dei poveri, favorendone l’incontro: ne costituiscono un esempio gli aneddoti riguardanti la predilezione per la pizza di Ferdinando IV di Borbone e la già menzionata nascita della pizza Margheritaavoiarda i la predilezione delle case reali borbonica – prima.noo di superamento delle differenze: di assimilazione al contest. La pizza rappresenta in tal modo il superamento ideale della differenza elitaria tra i diversi tipi di cibo, espressione dello “status symbol” di più o meno facoltosi consumatori. Come scrive Camporesi, «non esiste infatti nella storia dell’uomo qualcosa che sia tanto profondamente segnato dal divario classista quanto l’alimentazione, la quale a sua volta condiziona la qualità della cucina oltre che l’abbondanza e la varietà della mensa».
Concludendo …
Il carattere interculturale della pizza, espressione culinaria “glocale” per eccellenza, fusione di tradizioni alimentari e culturali partenopee, mediterranee e d’oltreoceano, sembra in definitiva essere evidente. La capacità di questo alimento di esprimere, allo stesso tempo, una e molte identità lo rendono sicuramente un simbolo vivente del difficile cammino verso l’integrazione a cui tutti, ospiti e ospitanti, siamo chiamati in questo delicato momento storico.
Nella nostra società, l’accettazione di ogni tipo di diversità può trasformarsi in una fonte di arricchimento complessivo ma, a tal fine, è essenziale assicurare un’interazione armoniosa tra persone e gruppi con identità culturali molteplici, variate e dinamiche. «La diversità culturale amplia la gamma di opzioni aperte a tutti; è una delle radici dello sviluppo, inteso non semplicemente in termini di crescita economica, ma anche come mezzo per raggiungere un’esistenza più soddisfacente dal punto di vista intellettuale, emotivo, morale e spirituale» (Dichiarazione universale sulla diversità culturale, Art. 3).
In tale prospettiva, la pizza, letta come una forma di comunicazione “universale”, sembra potere diventare il simbolo effettivo di una “geografia interculturale dei sapori”, ideale punto di convergenza trasversale fra tradizioni alimentari di popolazioni provenienti da ogni parte del mondo, in crescente interazione tra loro. La preferenza degli immigrati per la pizza, alla luce delle considerazioni svolte, esprime dunque concretamente il loro bisogno di inserirsi nelle dinamiche culturali del paese di accoglienza, a partire dall’accettazione di linguaggi e consuetudini più facilmente comprensibili e condivisibili.
D’altra parte, se ciò può essere vero per l’alimentazione generalmente considerata, ancor di più lo è per un alimento come la pizza, i cui significati ulteriori e la cui origine, non diversamente da quella del pane, rimandano alle prime tracce della civiltà umana.