Filologia e storia letteraria
Di Federico Sanguineti
Si sa, per definizione, che la filologia è la disciplina relativa alla ricostruzione di un testo letterario. Il suo ruolo può essere illustrato da un esempio concreto. Aperto l’Inferno di Dante, di cui si è perso l’autografo, ci si può trovare di fronte ai versi 59-60 del secondo canto, dove, rivolgendosi a Virgilio, Beatrice ne elogia la fama “che ancor nel mondo dura / e durerà quanto il mondo lontana”. Poiché non mancano codici che recano “moto” o “motto” invece di “mondo”, spetta ai filologi stabilire quale sia la lezione giusta. Stando all’autore di un commento del 2021, Mercuri, la parola “moto”, nel contesto in questione, “non sta in piedi poiché farebbe perdere la costruzione in struttura parallela” con il verso che precede. C’è però da interrogarsi se un chiasmo così perfetto per simmetria di termini appartenga (o meno) allo stile di Dante. Quando vi ricorre, il Poeta non manca di variare almeno un elemento: per es., a Inf. III 14-15 (“Qui si convien lasciar ogni sospetto; / ogni viltà convien…”), il verbo (“convien”) resta identico, ma mutano i sostantivi (“sospetto” e “viltà”). Tornando a “moto” e “mondo”, occorre riconoscere che non c’è nulla di più dantesco del loro accostamento: basti pensare a un verso come “quel moto che più tosto il mondo cigne” (Par. XXVIII 27). Bisogna inoltre considerare che “moto” è “lectio difficilior”, cioè meno banale, rispetto a “mondo” (oltretutto errore di ripetizione dal verso precedente). Del resto, già nel Convivio (I iii 10) si legge: “Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare”. Si è tuttavia obiettato che, paleograficamente, l’unico passaggio spiegabile sarebbe quello da “mondo”, attraverso “modo”, per giungere a “moto”. Senonché ogniqualvolta a testo si ha la parola “moto”, ecco che di norma almeno un copista la trasforma in “motto”. Lo si può documentare in non meno di dieci occasioni: a Purg. IV 79, XVIII 32, XXVIII 107, nonché a Par. II 127, X 9, XVIII 114 e 119, XXIV 132, XXVII 115, XXVIII 27. Anche a Inf. II 60, guarda caso, in un manoscritto, l’Ashburnhamiano 828, si ha il passaggio da “moto” a “motto”, poi variato in “moddo”. E, sempre nello stesso manoscritto, a Purg. XV 18 si ha “modo” banalizzato in “mondo”. Ma non basta: i commentatori antichi, dal XIV secolo (Guido da Pisa) fino al XVIII non hanno difficoltà a leggere “moto”. La preferenza per la banalizzazione “mondo” si ha, in massa, solo dopo la Rivoluzione francese: il commento di Baldassarre Lombardi è del 1791. Significativa è l’incertezza di Foscolo, che in un primo tempo accoglie la lezione “moto”, poi opta per “mondo” (chiosa che subentra a testo). Ma perché, con l’affermazione della borghesia, a parte episodiche eccezioni, si preferisce “mondo”? La risposta, finalmente, è offerta da un filologo dei nostri tempi, Giorgio Inglese, secondo cui “moto”, essendo “sulle labbra di Beatrice, suonerebbe in questo momento come una sottigliezza scientifica fuori tono”. Per la borghesia è bene che la donna, riducendosi a regina del focolare domestico, stia lontana da sottigliezze scientifiche. Sembra incredibile, ma la misoginia borghese si insinua anche in sottigliezze filologiche.