Irene sarno
C’è qualcosa di irresistibilmente comico, in politica, quando qualcuno riesce a trasformare una disfatta in un brindisi. È un talento raro, quasi artistico. Ed è esattamente quello che è accaduto in queste ore, con Mara Carfagna e Gigi Casciello impegnati in un esercizio di entusiasmo creativamente scollegato dalla realtà. Perché bisogna dirlo: festeggiare l’1% ottenuto alle regionali campane come prova di forza, sostenendo addirittura di essere la “quarta forza del centrodestra”, è un capolavoro. Quarta forza, sì — su quattro. È come arrivare ultimi ai 100 metri e rivendicare il podio perché gli altri se ne sono andati prima. Eppure la propaganda ha i suoi riti, e qualcuno deve esserselo imposto come missione personale: riverniciare l’irrilevanza con la lacca dell’entusiasmo. Ma il problema è che i numeri, purtroppo per loro, non partecipano mai a queste sceneggiature. L’1% non è un dato politico: è una constatazione statistica. È la soglia di chi è stato visto, ma non riconosciuto. Il paradosso cresce quando si ricorda un dettaglio che aleggia sulla scena come una battuta già pronta: in Campania l’armata Carfagna-Casciello è stata superata perfino da una lista messa in piedi da Cirielli in una settimana. Una settimana. Il tempo di scegliere nome, simbolo e ordinare le prime grafiche. Eppure, nonostante questa velocità da fast food della politica, il risultato è stato superiore. A quel punto, più che un confronto elettorale, sembra una gara tra un maratoneta allenato male e uno che non sapeva neanche di correre. E torna in mente un altro grande capitolo della saga: quando Carfagna pensava di potersi candidare alla presidenza della Regione. Proprio lei, con questi numeri, con questo radicamento, con questa forza elettorale che definire “soft” sarebbe un complimento generoso. È come voler guidare un transatlantico con la patente del monopattino. Il punto è semplice: il ciclo politico del cosiddetto “modello Carfagna” non si è chiuso ieri. Si è esaurito da tempo. I risultati delle regionali non l’hanno indebolito, l’hanno semplicemente certificato. Hanno messo il timbro finale su un percorso che non ha mai costruito una rete territoriale solida, non ha mai avuto un radicamento reale, non ha mai espresso una leadership capace di reggere alla prova del campo. Oggi, però, invece di una riflessione seria — che sarebbe persino rispettabile — ci troviamo davanti al tentativo di imbastire una narrazione grottesca: trasformare una performance marginale in una consacrazione. Ma la politica, quella vera, non è un gioco di prestigio. È fatta di consenso reale, di squadre, di territori, di comunità. Non di comunicati autocelebrativi e di abbracci di circostanza sotto i gazebo. E allora va riconosciuto un merito: riuscire a festeggiare l’1% con questo entusiasmo è la prova che la fantasia, in politica, è viva e lotta insieme a noi. Ma il dato finale resta quello. Spietato, semplice, definitivo. Loro possono anche continuare a sorridere per le foto di rito. I numeri, invece, non sorridono a nessuno. E soprattutto non mentono.





