Storia di un frate cappellano dell’ Orfanotrofio Umberto I nei momenti tragici dell’alluvione quando l’Istituto divenne ricovero agli alluvionati
Di Giuseppe Nappo
Nello scendere pensai bene di tenermi lontano dal canale del Fusandola. La Madonna delle Grazie, Largo Montone , via Tasso e a “Scesa dei Canali”, non erano devastate come le aree a monte, anche se qui e i mucchi di mota indicavano con chiarezza la discesa della fiumara. Passai tutto senza fermarmi arrivando a Santa Lucia. Solo lì incredulo mi arrestai. La melma fangosa era dappertutto, gente che correva, pompieri e ambulanze che si muovevano, pensai, verso il Riuniti. Mi colpirono diverse persone, terree in volto impaurite, si muovevano in modo strano, ora decise verso una direzione, ora spostandosi in direzione diversa, a volte inversa. Ebbi netta la sensazione come di quando si pesta un formicaio e le formiche terrorizzate si disperdono senza una logica nelle disparate direzioni. Nel fare questa considerazione ripresi fiato, allorché dai portici del comune fu lo stesso Segretario Alfonso Menna ad appellarmi: “Padre Andrea!“. Traversai di corsa verso di lui , raggiuntolo dovette leggermi nel volto la tensione di quegli accadimenti tant’è che subito chiese? “Andrea è successo qualcosa ai ragazzi dell’orfanotrofio?” “No Presidente, l’orfanotrofio, no , il problema è la caduta della chiesa di San Gaetano che ha portando nel Fusandola mezzo rione Canalone, servono soccorsi , tanti e subito”. Se per un attimo gli lessi un barlume di serenità, il finale della mia frase impietrì il suo volto in una smorfia dolorosa. Un folto gruppo di persone lo attorniava, parlò brevemente con un ufficiale dell’esercito. Questo mi affidò 7 militari del genio da condurre a Canalone rifacendo all’inverso il percorso fatto a scendere. Negli anni seguenti il Commendatore Menna ricordando quel l’incontro mi avrebbe confidato, che benché stesse operando da oltre due ore, nessuno era riuscito, a dargli un senso logico della tragedia abbattuta sulla città, solo la copiosa pioggia non poteva giustificare quello scempio. Solo grazie a poche parole di un giovane fraticello aveva in un attimo capito l’enormità della catastrofe abbattutasi sulla città. Risalii verso Canalone indicando il percorso ai ragazzi in divisa grigioverde, portavano con loro solo delle pale, cos’altro potevano portarsi dietro in un percorso così impervio? A cosa potevano servire poche pale? Lungo il percorso incrociavo gente in discesa che chiedeva di questo o quel parente, come se il solo fatto di risalire fosse sufficiente a conoscere la buona o cattiva sorte di ogni persona ingurgitata dal Fusandola. Arrivammo lassù a giorno fatto, solo allora feci caso che avesse smesso di piovere, quando non saprei. Il folto gruppo di soccorritori, che ora vedevo all’opera nei palazzi sgarrupati, erano tutta gente del rione insieme ad alcuni lavoratori marchigiani che stavano costruendo la galleria della via panoramica. I primi soccorritori ufficiali furono quei sette militari dell’esercito che avevo condotto io fin lassù. Infatti ci vollero altre due ore per permettere ai mezzi dei pompieri di farsi largo lungo via De Renzi e Via Paesano e permettere il trasporto dei feriti dall’Orfanotrofio al Riuniti. Padre Claudio come mi vide mi aggiornò: “ Ho inviato Gaudenzio con contusi, feriti, vecchi , donne e bambini verso l’orfanotrofio, credo sia più necessario attivarsi per confortare i vivi, più che coltivare residue speranze nello spalare fango” . Feci ritorno all’orfanotrofio dove trovai un alacre fermento. Il consistente numero di alluvionati, gente bagnata, spaventata alcuni di essi piangenti e terrorizzati, lì rifugiatosi, veniva assistito in modo ammirevole dal personale dell’ orfanotrofio. Vidi prodigarsi tutto il personale, compreso gli istitutori, coadiuvati anche dagli allievi più grandicelli dell’istituto. Indirizzati i feriti all’infermeria, avevano già fornito lenzuola e coperte per coprirli, venivano consegnati asciugamani, magliette e quant’altro per ripulirsi e cambiarsi dai panni fradici d’acqua. In molti si erano lì rifugiati con ancora i pigiami della notte addosso. Soprattutto i più piccoli vennero rivestiti con divise e vestiario dell’orfanotrofio. Il personale tutto si prodigò pur di fornire agli alluvionati, il latte caldo, il caffè d’orzo, il tè, il pane per la colazione e più tardi un pasto caldo nel refettorio. Noi monaci tornammo in convento solo dopo l’ora di pranzo, tutti avevano necessità di scrostare il fango dal saio. Quando, più tardi , stavo facendo ritorno all’orfanotrofio, udii apostrofarmi dalle sbarre del carcere. “ Zi Mò,…. zi Mò” Il luogo lo conoscevo bene in quanto espletavo il mio servizio anche nel luogo di pena, minor conoscenza avevo delle persone specialmente se udivo voci senza volto. Erano i reclusi che da dietro le sbarre chiedevano notizie sulla tragedia, anche se mi resi conto che essi conoscevano fatti e accadimenti meglio di me. Infatti, subito dopo uno di essi mi disse una cosa a me ignota. “La notte passata nessun forno di Salerno ha panificato e neppure la prossima notte i panifici potranno riprendere la normale funzionalità. Domani non ci sarà pane sufficiente in città! Chiedi al direttore se possiamo far pane anche per gli alluvionati?” “Vedremo – risposi” “Vacci…. vacci ora….. il direttore è un brav’uomo! ….. Zi Mò, fa in modo che domani quella gente abbia almeno un pezzo di pane. Povera gente!” . Pur perplesso mi avviai per via San Massimo fino alla porta del carcere, chiesi udienza dal direttore, che ben mi conosceva. Dopo avergli sommariamente raccontato gli eventi della giornata, gli presentai l’inconsueta istanza, ascoltata con molto interesse. Tanto che informatosi da quale finestra fosse arrivata la voce inviò un secondino a prelevare i reclusi. Poco dopo arrivato il carcerato ripeté tal quale quanto mi aveva detto in precedenza, aggiungendo che a loro, che già producevano il pane per il carcere avrebbe cambiato poco panificare una quantità in più. Al direttore parve una cosa fattibile acconsentendo. Per poi immediatamente irrigidirsi allorquando il detenuto pose una seconda condizione. “Naturalmente il pane a Canalone lo dobbiamo portare noi carcerati”. Lunghi attimi di indecisione in cui il direttore seduto alla scrivania non proferì parola, stava con gli occhi chinati sulla scrivania quasi ad attendere che dal foglio spuntasse la risposta. Io fissavo ora il direttore, ora il carcerato. Mentre questo mi guadava diritto negli occhi. in cui lessi la muta richiesta di solidarietà, ma trovai anche risposta del perché avesse fatto passare l’istanza per mio tramite. Alla fine il suo sguardo implorante vinse “Direttore faccia fare il pane , lo consegneranno con le loro mani ed io garantisco sul loro rientro in istituto appena finita la consegna” dissi. Naturalmente in quello strano gioco delle parti il direttore accondiscese ponendo le sue condizioni ultime: “Solo due ceste, solo due carcerati, scortati da due guardie e accompagnati dal qui presente Cappellano”. Quella notte non dormii sia per la convulsa giornata trascorsa sia per la preoccupazione di quella strana situazione in cui con leggerezza e tanta sicumera giovanile mi ero ficcato. La mattina successiva l’orfanotrofio fu ancora maggiormente il primo punto di conforto per gli alluvionati del rione. Non vi era più la pressione dei feriti o dei contusi ma ormai tutte le persone avevano consapevolezza delle tragiche realtà che li aveva colpito. La tristezza era una cappa soffocante ed i pianti senza umana consolazione. Gestito dagli addetti comunali nella portineria era in funzione il primo punto di anagrafe degli sfollati che, da lì venivano indirizzati all’istituto Vicinanza. Ancora allievi, personale e istitutori curarono, con i pochi beni di conforto rimasti nella dispensa, la colazione e il pranzo. Poco prima delle 11 come concordato il giorno prima mi recai alla carceri di Sant’Antonio, dove trovai già pronte le ceste , guardie e carcerati in attesa. Risaliti all’Umberto I lasciammo la prima cesta. I carcerati erano stati buoni profeti; pochissimi forni avevano panificato quel giorno. L’orfanotrofio era del tutto privo di pane e la cesta che consegnammo bastò appena, divisa come fu tra allievi e alluvionati. Mentre la seconda cesta venne ripartita sul rione tra i soccorritori, ormai in forze numericamente consistente, e tra le persone ancora nelle case del rione ed in attesa di conoscere il loro destino. Gli uni e gli altri grati nel ricevere l’attenzione di un pane fresco lievitato per loro. Una solidarietà umana tra gli ultimi che non ho mai dimenticato anche perché nel rientrare in carcere i due carcerati mi abbracciarono con calore e ringraziarono. “Grazie per aver creduto in noi e grazie per averci permesso di fare del bene a gente provata dal destino”. Lo stesso pomeriggio Canalone venne evacuato completamente , per mesi divenne un rione fantasma. Partiva la grande solidarietà della città, dell’Italia del mondo intero. Da allora uno stuolo di giornalisti avrebbe scritto, per gratificare questo o quel personaggio, elogiare il grande gesto, menzionare il bel dono. Nessuno avrebbe chiesto o scritto nulla sui piccoli gesti di solidarietà tra gli ultimi. Quella solidarietà tra poveri, alluvionati , orfani , carcerati e soccorritori che non avrebbe fatto notizia. Fatti di cui un giovane monachello fu testimone e suo malgrado anche un impaurito protagonista.
Giuseppe Nappo