Di Olga Chieffi
Un piazzale perfetto, fisico e simbolico, quello della stazioncina di Vietri sul Mare dove nella notte del Fuoco si è svolta la festa dei ceramisti, onorando così Sant’ Antonio Abate. Uno spazio ritrovato questo della stazione , che dal mercoledì ha accolto i diversi linguaggi dell’arte, dalla ceramica, alla musica, sino a quella culinaria e all’arte non semplice da acquisire ai tempi d’oggi, quale quella della condivisione e dell’amicizia. Fare la ceramica è fare arte, per i ceramisti come per la “mangiafuoco” Rossella che ci ha trasportato in un oriente da Mille e una notte, novella Shahrazad, profumato di Zahr , tra anelli di fuoco e l’invito a vivere l’emozione del momento, la magia della notte, l’incanto di un elemento assoluto quale è il fuoco. Fare in greco è “poiein” e ha la stessa radice di poesia, quindi, sognare e ricordare con le mani, cioè tramite una tecnica e, con questa, entrare nell’ indicibile. Non il reale immediato, ma l’anima della realtà, attraverso la sua narrazione: questo è e vuole essere oggetto della mimesi, dei vari artisti ceramisti per il quale si può affermare che lo spazio semantico specifico dell’immaginazione è formato sulla narrazione di ciò che sta dietro quella realtà che si offre, in prima istanza, come “scuola del vero”. Se è vero che una sola è l’immagine che l’artista realizza per tutta la sua esistenza, è, questa immagine, sempre il racconto-sequenza dell’altra faccia del reale, della dimensione “altra” e unica della vita. Anima mundi, dunque, nel senso platonico o, almeno lì rinascimentale soprattutto, della magia nelle cose, nel ciuccio portafortuna di cartapesta in verde di prammatica e con vaso sulla groppa, decorate con due immagini dedicate a Richard Dolker, capogruppo della colonia tedesca a Vietri, che lo scorso dicembre ha festeggiato il centenario del suo sbarco nella perla della Costiera, realizzato Elisa D’Arienzo, in arte “Little Freak”, o nella cottura primitiva della ceramica, realizzata in un forno a cielo aperto da Lucio Liguori e Franco Raimondi, quindi la cottura raku con i pezzi decorati dai ragazzi e da quanti abbiano inteso impugnare il pennello, schizzando una realtà “ri-scoperta”. Momento conviviale di eccezionale partecipazione con l’offerta assolutamente gratuita dei piatti della tradizione campana, pasta e fagioli, pasta e patate, broccoli e salsicce, innaffiato dal rosso locale con sul palco I figli del Vesuvio allievi del Maestro Enrico Della Monica, depositario e divulgatore delle tradizioni musicali, che continua con i suoi ex-studenti a “giocare” nel senso più intimo della parola e quindi a creare gioia e conoscenza cantando ciò che vuole il nostro tempo veder coesistere una tale mescolanza di stili, di linguaggi, di norme di vita, rendendoci partecipi dei suoi appunti per lo studio di un dialogo della musica popolare, con tutti gli altri generi. Gustare la poesia della musica del mare nostrum significa provare ad entrare “dentro” il vissuto e l’immaginario delle donne e degli uomini la cui storia ha “creato” i canti che ci sono stati tramandati dalla memoria collettiva. La poesia dei canti della nostra tradizione racconta di “mali antichi”, ancora oggi presenti in altre forme o che potrebbero ritornano: l’arroganza sicura dei potenti e la riverenza timorosa dei “sottomessi”, la subalternità della donna e il senso di supremazia dell’uomo, gli “strappi”, i divieti sociali imposti alla libertà di amare, il malessere interiore di cui nessuno si accorge, le violenze e le ingiustizie taciute, quei tipi di lavoro che “consumano” il corpo e lo spirito, la paura di un futuro con magre prospettive o il grigio senso di rassegnazione. Questo ed altro fa parte della storia collettiva e dei vissuti individuali raccontati in musica e poesia dal canto de’ “I figli del Vesuvio”, attraverso chitarre, melodiche, e naturalmente percussioni, tammorre, portatori di un ricco patrimonio di “bellezza”: il fascino della melodia, la capacità di improvvisazione, la “libertà” di “rivestire di sé” un canto, la capacità di creare e usare metafore profonde e sorprendenti, l’originalità di melodie uniche, la forza del sentimento “vero” contro ogni divieto “artificioso”, il senso di ribellione alle ingiustizie, l’umorismo con cui affrontare le peripezie della vita. Sindaco Giovanni De Simone, il quale dopo la benedizione del fuoco, da parte di Don Matteo, che invitiamo per il prossimo anno a offrire nello stesso spazio a benedire anche gli animali, in modo da rendere più partecipata la festa della rinascita, ha ricevuto notizia della sua nomina a delegato provinciale al Mare e all’ambiente, unitamente all’instancabile Assessore alla cultura Daniele Benincasa, il quale ha organizzato tutto, anche lo stand delle Poste italiane, con l’annullo dedicato a questa festa e giornata. Benedizione sacra e profana per uno spazio che deve continuare a vivere. Esiste un legame stretto tra il pensiero filosofico dell’esistenza e della ragione umane e il sapere del progettare-costruire, entrambe hanno un comune, e fondamentale riferimento, lo spazio. Noi uomini della fine ereditiamo il concetto di spazio come extensio, con esso Cartesio pensava lo spazio quale pienezza e continuità della materia e quindi quale medium del movimento, del tendere avanti a sé, quale sinonimo dell’amplificazione. Ecco che, Giovanni e Daniele che abbiamo imparato a conoscere nell’ambito di varie manifestazioni culturali, ma possiamo immaginarli in ogni luogo, sacerdoti dinamici di un tòpos, il dove, che, localizzando, determina una cosa come cosa-per-l’uomo, che diventa condizione dell’esistenza, punto di riferimento dell’esperienza, che consente la progettualità e l’attuazione, l’esistenza razionale, aprendo alla musica, alla storia, all’ arte, al costume, al finissimo artigianato e, quindi assumendo la caratteristica comunicativa o sociale di “luogo familiare”, mentre la familiarità del luogo assumerà il tratto di condizione necessaria di ogni progettualità, non solo civile. Un segno, questo piazzale che con le sue giovani attiviste tra cui Daniela Scalese in arte Giorgina e Lucia Carpentieri di Zuma Ceramiche, simbolo di una Vietri giovane e donna, è divenuto suono, di-segno, archè, principio in quanto da-dove della progettualità, essenziale punto di dipartimento di ogni pensiero che, per essere se stesso deve saper ascoltare, discernere, giudicare, orientarsi, criticare, lasciandoci ritrovare tutti, magari persi, tra le note di una partitura, ai piedi di un vaso, “avvampati” in una notte di luna crescente.