Turandot: faccia a faccia con la musa nera - Le Cronache
Extra

Turandot: faccia a faccia con la musa nera

Turandot:  faccia a faccia con la musa nera

L’ultima opera di Giacomo Puccini inaugurerà questa sera, il cartellone Teatro Antico di Plovdiv una attesa prima firmata dalla bacchetta di Jacopo Sipari di Pescasseroli, docente di formazione orchestrale del Martucci e della regista Nina Naydenova

Di Olga Chieffi

Questa sera, il teatro antico di Plovdiv, una meraviglia romana, sarà gremito in ogni ordine in attesa che i riflettori si accendano, alle ore 21, su quell’opera chic, costellata di  inquietitudini linguistiche e psicanalitiche, ma alfine legata anima e corpo, nella sua audace crosta impressionista, a un autentico retour à l’antique, che è la Turandot di un Giacomo Puccini, che dopo la quasi completa disgregazione della struttura operistica compiutasi tra Bohème e La fanciulla del West, sembra voler gradualmente ricomporre quel frammentarismo della prima maturità entro una specie di calco formale freddo e insieme dovizioso, dove le allusioni a Ravel e a Stravinskij, per quanto appariscenti e dotte, sono esclusivamente allusioni ormai, e non premonizioni come ai tempi di Bohème e Butterfly. A Nina Naydenova, che firmerà la regia dell’opera non è certo sfuggito il carattere di festa propiziatoria di riti di morte che è insito nella terminale Turandot, donde gli immancabili corollari dell’estetismo, della repressione erotica, della cattiveria. Nel grafico dell’evoluzione pucciniana, i personaggi di Turandot sono dunque cerei ed isterici abitanti di un mausoleo, ognuno chiuso nella sua incapacità di dare alla tragedia individuale altro sbocco che quello di uno show di gran classe, elegante e alla fine un po’ superfluo: come dire, un ritorno ai forbiti canoni dell’operettismo, per un momento occultati e derisi. E’ così che alla frigida Turandot, che avrà ala voce di Lilla Lee, possiamo appiccicare tutte le etichette che vogliamo, dalla freudiana alla schonberghiana, senza vietarci di osservare la casualità del rapporto. La questione della vocalità è imponente: circondata da un cerchio algido che svela la morsa del futuro, la voluttà o la paura (o impossibilità) di viverci dentro, arrampicata di continuo sulle pareti di sesto grado di una tensione intervallare non meno proterva, questa dispotica soubrette precorre, almeno per l’apparenza grafica, tempi non lontani in cui il grido solitario dell’uccello sopranile sarebbe stato non più idoneo a cantar fiabe, ma a misurare la temperatura del Nulla. Si può concordare con chiunque, a tal punto, con chi vede nei do sovracuti e nelle quinte aumentate del canto della principessa un cilicio o un rifugio per la sessuofobia della stessa o meglio per la sua paura che amore, secondo vecchi insegnamenti dell’autore, si identifichi con morte.; e con chi vi scorge un modo d’amare, l’unico atto ad esporre quella sessualità da basso impero, sadica e repressiva; e persino con chi riconosce nel vacuo Calaf ( il “Nessun dorma!” sarà elevato da un bel nome del Metropolitan di New York, Alejandro Roy) l’ultima proiezione del maschio Puccini, inibito e un po’ macchietta (anche se sarebbe da dire che la vera “crudeltà” di cui tanto si chiacchiera in quest’opera è proprio lui, il principe gallo, ad esibirla: la stessa “divina” non può nascondere un fremito, un’insicurezza, sia pur inconsci, nell’istante in cui la mano di Liù (Evgenia Ralcheva) si dà la morte e costui? Non pare che gliene dolga più di tanto, se l’unica cosa che riesce a fare è continuare a compiangere la meschina. A completare il cast Momchil Karaivanov (Altoum), Alexander Nosikov (Timur) e Teodor Petkov, Alexander Baranov e Mark Fowler (Ping, Pang e Pong). “Turandot è simbolo e vittima del caos – ha rivelato la regista Nina Naydenova– un caos generato dai suoi ministri Ping, Pong e Pang, che la fanno apparire come una chimera, una visione , al di fuori della realtà, lontanissima dal suo popolo, dalla vita. Ministri che vedrete moltiplicati andare a formare le armate del male, quali creatori di caos e obnubilatori di menti. L’esempio da seguire è quello di Liù, la quale pathendo e generando un taglio, un dolore attraverso la sua morte “emoziona” la principessa di gelo, che si scioglie e manda in frantumi la sua maschera. Una lezione filosofica questa, attuale e salvifica: se noi riusciamo ad agire in modo da suscitare la fiducia degli altri, e al tempo stesso ad avere fiducia negli altri applicando il “sapere del senso, contro l’evidente deprivazione emozionale all’insensibilità alla differenza, che ha il suo fondamento nell’illusione della ricerca di un senso della vita nelle cose in-differenti e non piuttosto nell’evento del sentire, nell’emozione vissuta, riusciremo a non inorridire dinanzi al vuoto dell’assenza di sé che sta attanagliando la nostra società, come attanagliava la principessa Turandot. Musicalmente le emozioni possono venire fuori attraverso una lettura di quest’opera liberata di ogni orpello, naturalmente ovvero nell’interpretazione fedele alla pagina pucciniana offerta dal Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli. Per lui, raffinatissimo e colto musicista, la partitura va inquadrata nell’ambito del Decadentismo europeo, accostandola ai lavori di Strauss e Mahler, Debussy e Ravel, con tutta la scelta dei tempi, sostenuti dall’eloquenza di un fraseggio attento a cogliere ogni minima sfumatura e dall’intensità di una concertazione pronta a sottolineare ogni minimo dettaglio, scandendo la vicenda con un ritmo teatrale implacabile, di forte coinvolgimento emotivo.  La parte strumentale, che sarà interpretata Orchestra e dal coro dell’Opera di Plovdiv, è elaboratissima. Puccini si serve praticamente di due orchestre. Una, infatti è collocata in scena e include trombe, tromboni, percussioni e un organo. Per il resto l’organico, è completo in ogni rango, per schizzare l’atmosfera di Turandot, attraverso effetti coloristici violenti e preziosi al tempo stesso, sei trombe, quattro tromboni, di cui uno basso, tamburo di legno, gong grave e nella lunghissima lista anche due saxophoni alti, che legheranno il loro timbro misterioso e dolcissimo al coro delle voci bianche, preparato da Dragomir Yosifov, doppiandoli dal dietro le quinte  nel primo e nel secondo atto, allorché entrano in scena, nascosti, nel momento che precede l’entrata della principessa. Dal palco intoneranno, infine la melodia con cui l’imperatore si congeda. E ancora percussioni e idiofoni sono inseriti in un tessuto ritmico dominato da figure ostinate, fra essi gong cinesi, xilofono glockenspiel, campane tubolari e triangolo, mentre gran cassa, tamburo di legno e tam-tam animano i passaggi più barbarici. Otto i temi “cinesi” dislocati nella partitura ma sviluppati con un particolare procedimento “esotico” catene di bicordi e accordi paralleli, ma anche riproduzioni di procedimenti polifonici praticati in Oriente come l’eterofonia, ossia l’esecuzione simultanea di diverse varianti di una stessa linea melodica, caratteristiche di uno spettacolo in cui le ragioni dell’occhio, ad un orecchio attento, risultano sottomesse alla struttura musicale.