Tangentopoli: non era e non è una ricorrenza formale - Le Cronache
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Tangentopoli: non era e non è una ricorrenza formale

Tangentopoli: non era e non è una ricorrenza formale

Di Giuseppe Gargani

L’aggressione di Putin all’Ucraina ha messo in ombra altre notizie, ma l’informazione su questioni importanti non può essere trascurata soprattutto se riferita a questioni che riguardano la vita democratica del paese. Si è scritto tanto nelle settimane scorse sulla ricorrenza del trentennale delle indagini giudiziarie di Tangentopoli: non era e non è una ricorrenza formale che si esauriva in una manifestazione o in un convegno che abbiamo pur fatto il 23 febbraio, il giorno prima dell’invasione dell’Ucraina.

Quel convegno con un dibattito approfondito nelle intenzioni dei proponenti era la prima occasione per riflettere sul significato che quelle indagini hanno avuto nel rapporto tra i poteri dello Stato. La riflessione deve continuare per valutare nel merito il metodo adottato dalle Procure della Repubblica nel portare avanti quelle indagini e esaminare i risultati che a distanza di anni possiamo valutare con maggiore serenità.

I rappresentanti del vecchio pool di “mani pulite” ripete da vari anni di aver scoperto un “sistema” di distribuzione delle tangenti tra i partiti: si trattava appunto del finanziamento irregolare ai partiti che era tenuamente sanzionato dalla legge. Niente a che vedere con la corruzione.

Bettino Craxi nel famoso discorso del 23 luglio 1992, aveva invitato il Parlamento, la classe dirigente dei partiti a confessare che tutti i partiti avevano utilizzato un finanziamento irregolare, in modo da interrompere quella perversa catena di montaggio con la quale si indagava ogni giorno un politico, non solo per quel reato ma anche per la corruzione.

Tutto era diventato corruzione senza distinzione e questo è stato l’equivoco dannato perché è invalsa l’idea che eravamo tutti corrotti, i partiti e le persone.

È stato questo Tangentopoli un abbaglio, l’immagine di un giudice che fa giustizia per garantire la legalità, “controllando i costumi oltre che i reati” come scrive acutamente Sabino Cassese nel suo ultimo libro. Questo ha creato tanti danni alla civiltà del diritto e ha deformato la funzione preziosa del magistrato e del giudice.

Le iniziative giudiziarie avvenivano con il consenso di cittadini che si riunivano davanti ai tribunali per osannare ai pubblici ministeri, eroi che mettevano alla gogna i politici praticando un metodo che non ha avuto precedenti nella Repubblica parlamentare dopo la Costituzione del ‘48.

È necessario dunque un confronto con i principali protagonisti di quel periodo con gli avvocati, i magistrati e il mondo professionale che si è occupato di queste problematiche per un esame di coscienza critico e per riconoscere le responsabilità di ciascuno, e le degenerazioni derivate dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo.

Le colpe sono della magistratura e della politica: le responsabilità che la politica e il legislatore hanno sono gravi e spiegano perché la magistratura da “ordine” autonomo è diventato “potere” per delega costante del legislatore.
Si è determinata una esasperazione irrazionale dell’indipendenza, come potere incontrollabile, che ha invece accentuato “l’autonomia” dei magistrati, a scapito dell’indipendenza, evidenziando un potere incontrollato.

Le responsabilità della politica sono tante con tante leggi sbagliate, sulle quali abbiamo fatto tante volte un’analisi puntuale, fino alla modifica dell’art. 68 della Costituzione che disciplinava le guarentigie dei parlamentari.
Alla Camera dei Deputati solo quattro deputati oltre il sottoscritto votarono contro per difendere la politica e la rappresentanza, e al Senato si votò la riforma all’unanimità!
Da allora il Parlamento per questa e per mille altre ragioni non ha il prestigio e il rispetto dei cittadini.
La domanda ricorrente sulla stampa più interessata nelle settimane scorse è “cosa fu Tangentopoli; un colpo di Stato, un complotto, una guerra fatta senza armi ma con i poteri coercitivi della magistratura”?!
Ognuno dovrebbe riconoscere che sì è trattato di una rivoluzione giudiziaria incauta, fasulla e dissacrante che ha visto il “potere“ dei pubblici ministeri, attraverso indagini finalizzate, condizionare, avvilire il potere politico legislativo, e assumere un ruolo anomalo configurando una Repubblica giudiziaria che certamente ha colpito l’autonomia della Repubblica parlamentare e ha inciso sulla separazione dei poteri.
“Vi era un disegno strategico“ come ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino “che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della Procura della Repubblica, quindi della magistratura inquirente.”
Il pubblico ministero aveva assunto la funzione del giudice “etico” quella di far vincere il bene sul male, di riscattare la società e punire in maniera emblematica il male.
Come è potuto avvenire tutto questo e come è stato possibile una deviazione delle indagini tale da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così illogica:

vi è stata la pretesa da parte dei Pubblici Ministeri di scrivere la storia in base a teoremi e pregiudizi: sia le indagini di “Tangentopoli” che quelle che riguardano la mafia, sono state utilizzate per “fare la storia”, per inventare una “storia” addomesticata, una “storia” legata ad indagini giudiziarie non verificate, date come vere e diffuse mediaticamente ad un pubblico emotivo e rancoroso.

Natalino Irti, ha scritto che al magistrato non si chiede di ricostruire un tratto di storia “generale”, politica o etica religiosa, ma di accertare quei fatti, e soltanto quei fatti che mostrandosi conformi alle figure normative (alle cosiddette “fattispecie” del lessico giuridico), esigono l’applicazione della legge. Da lui non si attende un giudizio sull’epoca storica”; e Sabino Cassese precisa che “il magistrato ha un potere casistico, circoscritto dalla questione che gli viene posta”.

Questo ha determinato la confusione tra questione morale e questione penale, ha alimentato il giustizialismo perché il Pubblico Ministero si è impegnato a processare il “sistema” più che a indagare sui singoli reati, sui diretti responsabili, attribuendosi finalità “palingenetiche”, acquisendo per tanto impropriamente la caratteristica di giudice etico. La conseguenza è l’alterazione del ruolo proprio del magistrato e del giudice in uno Stato democratico.

Questo per quanto riguarda le indagini; ma constatiamo che le relative sentenze sono state in nettissima prevalenza di assoluzione e smentiscono i teoremi dei pm; e constatiamo altresì, con molto sollievo, che la sentenza della Corte d’Assise di Palermo dell’ottobre scorso nega la natura penale alla “trattativa tra lo Stato e la mafia” che, per molti anni ha avvelenato i rapporti tra le istituzioni e la magistratura, tra la politica e la magistratura.

Le sentenze dunque hanno coraggiosamente ristabilito per tanti versi la verità e hanno riabilitato tanti politici nel caso “Tangentopoli”, e nel caso “mafiopoli” lo Stato e i suoi rappresentanti.
Se questa è l’analisi è necessario un forte appello per far luce sulle indagini giudiziarie e sulle conseguenze negative per l’equilibrio democratico, e ottenere una pacificazione del Paese come fu necessaria una pacificazione nazionale per guarire le ferite della guerra civile del 1943-1945. Una “conciliazione” per superare lo scontro politico e giudiziario che ha avuto conseguenze negative per la politica ma anche per la magistratura che dagli osanna e dalle invocazioni degli anni 90 si trova a fare i conti con correnti interne faziose e senza contenuti culturali interessate a garantire un potere fuori norma dei capi degli uffici.

Credo che su queste questioni sia opportuno aprire un grande dibattito su questo giornale per confrontare idee e valutazioni e trarre conclusioni operative.

Giuseppe Gargani