di Antonio Manzo
Resterà per lungo tempo la cronologia degli avvenimenti di Tangentopoli ora che la storia decide di far celebrare i trent’anni dall’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano e diventa così avvenimento principe del calendario cerchiato in rosso diei lunghissimi giorni ricordati come quelli della presunta rivoluzione morale del Paese o presunta rivoluzione giudiziaria. Ora alla tappa storica dei 30 anni dal fenomeno meglio noto come Tangentopoli accende un dibattito sull’ordine giudiziario diventato impropriamente “potere”, secondo una errata concezione dei rapporti con il potere politico e della repressione penale del malcostume politico e amministrativo. Mettiamo subito in chiaro un fatto più che una opinione: nessuno vuole cancellare Tangentopoli, annullarla solo per la presunzione di potere rivoluzionario per via giudiziario per gli errori commessi e i giudizi sommari contenuti nelle operazioni Mani Pulite. C’è da superare subito una narrazione improvvidamente fatta diventare prevalente nei giudizi: la favola del cosiddetto controllo della legalità alla magistratura in tenuta da combattimento. Il pur legittimo controllo di legalità in una situazione emergenziale che aveva segnato perfino il libero mercato, corrompendolo con l’economia della mazzetta. Il potere politico amministrativo e quello economico finanziario erano stati corrosi da una economia della tangente che falsava le regole elementari della libera concorrenza e del dispiegamento dei mercati. Ma questa pur importante operazione di pulizia fu contraddistinta da un moralismo semplificatorio e da un manicheismo nazional-popolare. Furono gli anni terribili nei quali il moralismo faceva retrocedere e degradare il concetto di etica pubblica tanto da trasformare un problema “morale” in una gara tra “bene” e “male” secondo un codice dettato dai singoli magistrati in tenuta da combattimento. Sono gli anni nei quali diventa violento il processo penale trasferito, grazie a giudici compiacenti e giornalisti succubi, nell’arena mediatica senza alcun rispetto della dignità umana che pur deve conservarsi nella eventuale ricerca della prova penale. In questa errata narrazione fu fatta digerire una sorta di giustizia complottista che avrebbe dovuto combattere contro i poteri che si opponevano al controllo di legalità.
Furono anche gli anni della nascita del cosiddetto “populismo giudiziario” che non fu solo una crescente carica virale nella società già scomposta da una giusta ricerca di legalità ma addirittura una fruttuosa categoria politica dei “forconisti” presenti ovunque, nel mondo politico come quello dell informazione. Di fronte all’avanzare pericolososissimo del populismo giudiziario venne meno la regola del processo penale attraverso una giurisdizione altalenante tra emozione e ragione giuridica. Così si rafforzò la pretesa palingenetica della magistratura, illusione contemporanea delle democrazie deboli. Concluse così Robert H Bork dell università di Yale chiudendo il suo libro “il giudice sovrano “: <La rivoluzione politica porta con se una rivoluzione culturale: leggendo le opinioni di molti giudici sembrerebbe che la propria missione sia quella di proteggere la civiltà. L ‘attivismo giudiziario per le sue caratteristiche incrina le fondamenta su cui sono basate le democrazie occidentali. Se non comprendiamo il deterioramento della funzione giudiziaria a livello mondiale, non potremo capire la portata della rivoluzione politica che sta avvenendo in tutte le nazioni occidentali e che sta portando alla graduale ma incessante sostituzione del Governo dei rappresentanti eletti con quello dei giudici nominati>. Ora che la Consulta ha deciso sui referendum della Giustizia tutti invocano la supremazia del Parlamento: solo una petizione di principio per celebrare i 30 anni da Tangentopoli?