STORIA E FINE - Le Cronache Ultimora
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STORIA E FINE

STORIA E FINE

Alberto Cuomo

Dopo la caduta del muro ed il veloce disfarsi della “democrazia” sovietica, nel 1992, Francis Fukuyama, economista e politologo americano di origini giapponesi, in seguito ad una serie di articoli sul tema, pubblica il saggio, “La fine della storia e l’ultimo uomo” che, tradotto in tutto il mondo, individua nell’affermarsi planetario della democrazia liberale il concludersi dell’affannoso cammino dell’uomo, di ciascun uomo, al riconoscimento di sé, del proprio valore, del proprio diritto alla esistenza ed alla salvaguardia, appunto la fine della storia e del carattere intrinseco all’umano che la muove, la sua volontà al riconoscimento, la quale, compiutasi nella realtà attuale, fa dell’uomo che la coltivava un essere diverso da quello storico. Con riferimento a Platone, per Fukuyama l’anima umana sarebbe diretta da tre suoi caratteri intrinseci, il desiderio ovvero l’appetire anche in ragione di un bisogno, la ragione, rivolta a fini, e il thymos, che egli intende come “animoso”, coraggio, intraprendenza, ambizione, volontà di affermazione, o volontà di potenza anche, nella richiesta di riconoscimento della propria dignità. Interpretando tale carattere quale motore della dialettica in Hegel, il thymos sarebbe pertanto l’intenzione, la molla ad essere riconosciuti nel proprio valore, o meglio a prevalere. Di qui il determinarsi di conflitti tra uomini, gruppi sociali, nazioni, rivolti alla affermazione di sé, al proprio riconoscimento, e, quindi la dialettica, il muoversi cioè della negazione, dell’altro, l’oggetto o l’altro soggetto, che determina la “storia”, ed il dualismo, singolare, sociale, politico, tra “padrone e servo”, tra chi cioè riesce ad affermare la propria presenza e chi, invece, nel timore della morte, si arrende ad una non riconoscibilità. In questa visione, con la caduta del muro ed il venir meno del regime socialista sovietico, Fukuyama concepisce il successo finale della democrazia liberale quale modo del compiersi del thymos, dal momento che in essa ciascuno è riconosciuto in sé, non più servo o padrone, nel pareggiamento, non uguaglianza, di ogni singolarità e della possibilità di soddisfare desiderio e ragione, data la iperproduzione di beni e di conoscenze. Naturalmente la dialettica, la negazione, il thymos, anche nella democrazia liberale compiuta continuano a persistere, ma solo in conflitti in un certo senso locali, circoscritti, sì che, così come aveva previsto il medesimo Hegel, ovvero un suo esegeta, il franco-russo Alexandre Kojève, può ritenersi che la storia, intesa nei termini di una progressività universale sia infine esaurita e se questi aveva indicato, nei suoi seminari del 1930 sulla fenomenologia hegeliana, la data della fine della storia nel 1806, anno dell’affermarsi dopo la guerra di Jena dello spirito della rivoluzione francese, il chiudersi dell’esperienza sovietica segnerebbe per Fukuyama il definitivo far termine della ricerca, per ciascun uomo, ciascun popolo, del riconoscimento di sé, in una equiparazione degli esseri ormai sostanzialmente accettata su scala globale. Considerando come Kojève, pure testimone dell’esperienza nazista e sovietica, pensasse che gli avvenimenti avrebbero condotto comunque all’imporsi dello spirito illuminista della parità dei diritti, ovvero ad una negazione dell’altro solo rituale, quale mera contrapposizione di diversità non sostanziali, Fukuyama ritiene a propria volta che tutti i fatti i quali hanno contraddetto il percorso della democrazia sino al tramonto della dialettica, come il comunismo, abbiano agito in realtà per il suo realizzarsi compiuto, e se oggi persistono forme di governo non democratiche, o avvenimenti notevoli di messa in crisi dell’ordine delle cose, questi sono fatalmente presi nel giro di una negatività non progressiva, e persino nella logica delle alternative di consumo propria al mercato. L’analisi di Fukuyama, l’idea della fine di ogni progressività storica, inattendibile in quanto sottesa da uno spirito di conservazione secondo cui liberalismo e mercato avrebbero condotto alla realizzazione del miglior mondo possibile, appare oggi falsa, se solo si considerano le attuali guerre che, mutando la scala degli scenari, da conflitti tra nazioni in possibili contrasti tra continenti e civiltà, sembrano ricondurci ai secoli trascorsi. E non solo, l’errore di valutazione da parte dello studioso nippo-americano è stato nel ritenere l’Occidente, la sua cultura, i modi sociali e produttivi che si sono evoluti dal Mediterraneo all’Atlantico, culla di valori cui aspirerebbe l’intero mondo, in una visione del tutto insana se si considera che, persino la più neutra applicazione del sapere ed il fare attuali, la numerologia che sottende l’intelligenza artificiale, i cosiddetti algoritmi in cui si sintetizza il reale, sono interpretati in termini diversi negli Usa e nei paesi orientali. Lo stesso Fukuyama, nel 2021, dopo il ritiro degli americani dall’Afganistan e, in fondo, da ogni politica di controllo del medioriente, ha riscontrato l’affievolirsi del potere politico statunitense destinato a cedere ulteriormente, in ogni campo, ad altri poteri internazionali emergenti con cui venire a patti. Nel suo testo sosteneva il farsi luce di quello che definiva, secondo la terminologia di Nietzsche, “ultimo uomo”, ritenendo questo come appagato, postumano persino, ovvero capace di delegare alle macchine ogni lavoro. E invece viviamo una realtà in cui sembra l’uomo si affermi negandosi. Il tentativo cui l’Occidente come l’Oriente, in ciò analoghi, sono inclini è nel potere-sapere prevedere il futuro, la fine della storia appunto, tanto da definirlo nei termini di nuova era geologica, “antropocene”, tempo di assoluto dominio dell’antropos che spingerà la trasformazione del mondo oltre la sua distruzione.